Il ritorno di J. K. Rowling con una fiaba dove le bugie hanno gli artigli affilati.
di Alessandro Sivieri
Abbiamo una torta nei sotterranei!
Di norma ci arrovelliamo sulle pellicole piuttosto che sui romanzi, ma quando ti imbatti in una autrice di fama internazionale che dedica la sua nuova opera a un mostro, l’occasione si fa succulenta. Dopo aver pubblicato dei thriller con lo pseudonimo di Robert Galbraith, la britannica J. K. Rowling torna nel suo elemento, quello dei mondi ad alto tasso fantasy. Forte del successo di Harry Potter, giunto a essere un franchise multimilionario in perenne espansione, la Rowling non deve dimostrare nulla a nessuno e intesse una sorta di gioco, che talora si fa più serio e oscuro, ma a fine corsa rimane un gioco (senza dubbio ben confezionato). The Ickabog è infatti l’espansione di una fiaba, ideata dalla scrittrice una decina di anni fa per i propri figli.
Il romanzo è uscito in un’edizione unica per ogni paese, includendo i disegni dei bambini che hanno partecipato a un contest per illustratori durante il lockdown. I diritti d’autore verranno donati dalla Rowling per aiutare le persone colpite dalla pandemia. Al di là della nobile iniziativa sociale, l’intento di The Ickabog sembra quello di creare un filo diretto con i lettori di tutte le età e trasportarci per qualche piacevole istante lontano da questi tempi bui, nel colorato regno di Cornucopia. Attenzione, però: chi si aspettava l’avvio di una seconda, imponente saga magica rimarrà a bocca asciutta.
Non è un paese per maghi.
La storia autoconclusiva, con tanto di riflessioni etiche, è ambientata in un contesto medievale, ma a parte lo stesso Ickabog (il cui nome deriva da Ichabod, che significa “senza gloria”), non vi è traccia di incantesimi o di elementi sovrannaturali. L’incipit ha un piglio descrittivo senza il desiderio di strafare e ci fa conoscere il microcosmo di Cornucopia e della sua sfarzosa capitale, Chouxville, dove il regno prospera sotto la guida di re Teo il Temerario.

Che poi la temerarietà non è proprio una qualità del sovrano, il quale preferisce i banchetti e le battute di caccia alle faccende di amministrazione. Cornucopia cresce grazie all’operosità dei suoi abitanti mentre Teo si ingozza di torte prelibate e indossa abiti sfarzosi. La sua impresa più pregna di gloria consiste nell’uccisione di una vespa, che ha catturato tutto da solo, sempre che vogliate escludere l’aiuto dei cinque valletti e di un lustrascarpe. Inseparabili compagni del re sono lord Flappone e lord Scaracchino, due aristocratici che vivono alle spalle di Teo, adulandolo, raccontandogli ciò che vuole sentirsi dire e, in ultima, manipolandolo. Già dalle prime pagine si delinea un affresco dissacrante della monarchia, priva di governanti benevoli. Quando il potere viene accentrato nelle mani di pochi e il popolo venera una figura idealizzata (in realtà priva di qualsivoglia talento), ecco che la facciata di benessere economico e sociale è destinata a crollare.

La scintilla che appiccherà il fuoco che brucerà Cornucopia (chiediamo scusa, Poe Dameron) è la testimonianza di un abitante delle Paludi del Nord, il quale afferma di aver visto il terribile Ickabog, responsabile del rapimento del suo cane. Sia chiaro: niente magie, niente mostri. La gente normale reputa gli Ickabog uno spauracchio per bambini e parlarne seriamente porta tutt’al più a qualche risatina. Eppure a Teo è giunta voce di un certo malcontento tra i cittadini (una ragazzina ha osato criticarlo in pubblico), quindi decide di imbastire una spedizione per uccidere il mostro, in modo che i sudditi ammirino il suo coraggio. Flappone e Scaracchino lo seguono di malavoglia, inconsapevoli del fatto che questa maldestra impresa cambierà le sorti del regno.

Una volta giunto nella palude, Teo scorge una enorme massa scura, con gli occhi fiammeggianti. Convinto di trovarsi faccia a faccia con l’Ickabog, fugge maldestramente e perde la sua preziosa spada. Scaracchino e Flappone vengono mandati a recuperarla e, impauriti, sparano alla cieca nella nebbia. Per errore uccidono il maggiore Raggianti, ufficiale assai stimato e padre di Roby Raggianti, uno dei giovani protagonisti. È a questo punto che Scaracchino ordisce un piano diabolico, che non solo solleverà lui e Flappone da ogni accusa, ma gli consentirà di mettere le mani sul trono: i due convincono Teo che effettivamente l’Ickabog si aggira nella palude e ha ucciso Raggianti. Il re, per difendere la sua reputazione, accetta la versione dei lord e si autoconvince che sì, è stato proprio il mostro ad averli attaccati.

Ambizioso quanto un Jafar e subdolo al pari di un Vermilinguo, lord Scaracchino instaura un autentico regime basato sul terrore, con brigate anti-Ickabog che dovrebbero proteggere i cittadini dal mostro, quando in realtà compiono soprusi in nome della corona e riscuotono tasse sempre più soffocanti. La gente deve aver paura del mostro e ogni scettico viene fatto sparire. Viene perfino rapito il più abile falegname del regno, il padre di Margherita Di Maggio (una ragazzina che aveva già criticato il sovrano), in modo che fabbrichi delle zampe di Ickabog per lasciare impronte verosimili nei territori limitrofi. La parte centrale del romanzo si ammanta di un cinismo non comune tra le storyline favolesche, un’analisi politica e sociale sul potere della corruzione. Assistiamo ai complotti di Scaracchino con un senso di impotenza, al punto da non riuscire a immaginare un lieto fine. Re Teo perde ogni contatto con la realtà e si isola in una gabbia dorata (l’illusione del controllo), ignaro della nazione che soffre. L’impostazione del racconto è corale, talvolta distaccata ma, complice la lotta al virus, non possiamo che lasciarci coinvolgere.
Il motore degli eventi sono le menzogne, incluse quelle che raccontiamo a noi stessi.
Non siamo certo nelle corti sanguinarie di Game of Thrones, ma le efferatezze hanno il loro peso, tra consiglieri infilzati a tradimento e intere famiglie che vengono giustiziate nel pieno della notte. La narrazione onnisciente passa dalle questioni governative alla psicologia dei personaggi, dai dilemmi di Scaracchino alle vicende di Margherita e Roby. I due ragazzi sono decisi a vendicare i rispettivi genitori, sia quelli morti che quelli tenuti in ostaggio. Come il padre dell’amica, anche la madre di Roby, abilissima pasticcera, viene tenuta nelle segrete in modo da preparare torte prelibate per Teo. Ironia della sorte, una minaccia cova proprio nelle prigioni: la tosta signora Raggianti organizza un’insurrezione tra una crostata e un budino, senza che le guardie se ne accorgano. Le strade di Roby e Margherita si dividono per qualche anno, ma i due si ritrovano quando le menzogne di Scaracchino iniziano a scricchiolare. La speranza di rivedere i propri cari li spinge a cercare l’Ickabog. La coppia si imbatterà in una creatura ben diversa dalle leggende.

L’incontro con la bestia e l’indagine sulle sue motivazioni non hanno grande spazio nel racconto, nonostante presenti degli aspetti interessanti, come il processo della Nascenza, che ha regole e fasi più articolate rispetto alla nascita di un essere umano. Insomma, l’Ickabog non sfigurerebbe tra gli Animali Fantastici, ma viene relegato a uno sbrigativo deus ex machina per traghettare la storia verso la conclusione. All’apparenza aggressiva si sostituisce l’archetipo della creatura a digiuno di un po’ di affetto. La marcia verso la rivoluzione ci ricorda che questa non è una fiaba monster in senso stretto, ma una parabola sulla figura del mostro, strumentalizzata a fini egoistici dal villain. Quando le bugie si accumulano, è inevitabile un crollo, che non risparmia nemmeno un mentitore di professione come Scaracchino, ormai incapace di gestire la situazione. Sapete, un famoso proverbio ci insegna che è possibile mentire a poche persone per lungo tempo o a molte persone per un breve periodo, ma prima o poi le parole ci si rivoltano contro. Grazie a due ragazzi e a un gigante peloso, il popolo di Cornucopia scopre la democrazia e impara a non fidarsi di chi trova un nemico nella diversità. Perfino Teo ha un arco di redenzione, dimostrando che non è mai troppo tardi per essere migliori.
Dagli echi orwelliani alle sfumature potteriane.
Il lavoro della Rowling offre una prospettiva semplice ma efficace sul controllo delle masse e sui meccanismi di distorsione dei fatti. Scaracchino fa leva sull’avidità degli scagnozzi e sugli affetti delle vittime, imponendo le sue falsità a suon di decreti reali: se ripetuta fino alla nausea, la storia più assurda viene infine accettata dal popolo. Non è difficile trovare rimandi a 1984 e ancor più a La fattoria degli animali di George Orwell. Attraverso il Ministero della Verità e il meschino maiale Napoleon, lo scrittore britannico ci esortava a non dare alcun diritto per scontato, specie la libertà di parola, poiché una grossa fetta della cittadinanza ha la memoria corta e c’è chi sarebbe disposto a sacrificare il vicino di casa – se non un caro amico – pur di vivere con una parvenza di tranquillità. Si tratta delle medesime fondamenta sulle quali poggiava il corrotto Ministero della Magia e, ne I doni della Morte, la dittatura di Voldemort. Le venature potteriane non si limitano alla critica sociale ma toccano minuscoli dettagli, come la descrizione dei dolci: i Sogni di fanciulla e le Culle di fata ci fanno pensare a qualche prelibatezza del menù di Hogwarts, senza dimenticare le Celie celesti, che fanno piangere di gioia chiunque le assaggi.

La fantasia culinaria della Rowling si ritaglia una parentesi sostanziosa, confermando che lo stomaco ha un ruolo chiave nel processo di world building. Se abbiamo già menzionato le peculiarità riproduttive dell’Ickabog, ottime per una lezione di Cura delle Creature Magiche, è doveroso citare i nomi originali dei personaggi, costruiti su allitterazioni, parole composte e metafore che sono un altro marchio di fabbrica dell’autrice (e che l’adattamento italiano ha cercato di preservare): Fred the Fearless è Teo il Temerario, mentre Scaracchino deriva da Lord Spittleworth; la famiglia Di Maggio si chiama in realtà Dovetail, un collegamento al mestiere di falegname; Gordon Goodfellow, uno dei soldati più onesti, diventa il capitan Buonuomo. Viene adottato, come per la saga di Harry Potter, un approccio che potremmo definire cratilico: il ruolo o il carattere di un individuo vengono riassunti nel suo nome.

L’aderenza sommaria ai canoni delle fiabe non ha impedito alla scrittrice di disseminare i suoi tratti stilistici tra una riga e l’altra. Oltre alla ricchezza descrittiva e alla ricerca linguistica, il comparto grafico si presenta curato, a partire dalla scelta di includere le illustrazioni dei piccoli ammiratori per evidenziare i momenti salienti. La copertina, cosparsa di simboli, è un preludio iconografico alle vicende narrate: dall’alto incombe una Spada di Damocle, che indica la situazione precaria di Scaracchino; il vino e i dolci, come abbiamo già appurato, sono un contenuto essenziale; il buco della serratura, il denaro e i fili intrecciati rimandano agli intrighi di corte che porteranno sofferenze a tutto il regno. La povera madre di Margherita Di Maggio, deceduta per sfinimento, era inoltre una sarta, cosa che carica l’ago e il filo di un significato ancora più personale. Se la morale della favola è accessibile a tutti, la tavola di Re Teo è imbandita di dettagli che lasceranno un sapore familiare in bocca ai fan di lunga data.
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