La faina di Wall Street e l’acqua corretta con le anguille.
di Alessandro Sivieri
Gasato dall’adattamento americano di The Ring e dalla fortunata saga di Pirati dei Caraibi, Gore Verbinski era pronto a dare vita a Bioshock, trasposizione live action dell’omonima saga videoludica. Le peripezie della città sommersa di Rapture, dove l’individualismo e i moti di spregiudicatezza hanno plagiato il progresso scientifico, costituivano una base allettante per un dramma sci-fi con azione frenetica e scenografie sontuose. Le richieste di budget e la spinta da parte dei produttori per un rating PG-13 spinsero Verbinski ad abbandonare la sua nuova creatura, focalizzandosi su un progetto assai più modesto, slegato da franchise di successo: questa è la genesi di A Cure for Wellness, un’opera che vi spingerà a gettare nel camino quella smartbox con un weekend per due in un centro termale.
Il ritratto della salute…
L’inizio da legal thriller ci porta a conoscere il protagonista Lockhart (Dane DeHaan), giovane e ambizioso broker di Wall Street che è a un passo dal guidare una importante fusione societaria. L’operazione non è priva di zone d’ombra e per finalizzarla è necessario il consenso informato di Roland Pembroke (Harry Groener), ex-amministratore delegato che si è ritirato in un sanatorio tra le Alpi Svizzere. Lockhart sa di nuotare tra pesci più grandi di lui (i suoi spietati superiori), quindi deve raggiungere Pembroke e ottenere il suo consenso, l’unica cosa che salverebbe l’affare milionario e la fedina penale di parecchi manager (incluso Lockhart stesso).
La gita montana si rivelerà una discesa nella paranoia e negli orrori del subconscio: dagli squali della finanza si passa, è proprio il caso di dirlo, alle anguille in salamoia. Lockhart ha un incidente d’auto e si ritrova, suo malgrado, ospite della lussuosa struttura, dove lo stimato dottor Volmer (Jason Isaacs) gli propone di godersi qualche trattamento termale finché la sua gamba rotta non si sarà sistemata. La casa di cura ospita illustri personaggi e capitani d’industria che si sono ritirati dalle scene per trovare un po’ di tranquillità. La “cura dal benessere” viene intesa come una fuga dallo stress e dalle impellenze della vita moderna, in modo da riscoprire ciò che conta davvero: non gli affari o il conto in banca, ma una rinascita fisica e spirituale. Come vuole il canovaccio, le nobili intenzioni di Heinreich Volmer & soci celano qualcosa di sinistro.
L’odissea tra scenari favoleschi e corridoi labirintici ha una certa presa sullo spettatore, specie quando si pongono come il riflesso del tormento psicologico di Lockhart, una persona con dei traumi da superare e in evidente carenza di pace interiore. La facciata cortese dei medici e delle inservienti ci fa dubitare, anche se per breve tempo, della sanità mentale del protagonista, lasciando presto spazio a una sua incapacità di agire contro un sistema perverso e ramificato. Stordito dai farmaci e privato della possibilità di comunicare con l’esterno, Lockhart si abbandona al senso di impotenza, subendo passivamente le fasi della cura.
L’esperienza sarebbe intrigante, se non fosse per il retrogusto da Shutter Island. L’emaciato Dane DeHaan, salito alla ribalta con Chronicle, ha un piglio decisamente dicapriesco quando la sua faina di Wall Street si mostra dapprima strafottente con chiunque, per poi mettere a nudo il proprio lato vulnerabile. I suoi vagabondaggi per la tenuta, gli sfoghi contro le infermiere sorridenti e i battibecchi con Volmer (un Mengele mancato) ci fanno pensare al detective Teddy Daniels che si aggira per il manicomio, nel tentativo di scovare pazienti scomparsi e aguzzini nazisti. Il rapporto che si viene a creare con la trasognata Hannah (Mia Goth), una paziente piuttosto speciale, aggiunge un pizzico di emozione ma non basta a raffinare la formula.
Sul versante visivo la produzione mostra i muscoli, alternando i banchetti nei salotti ottocenteschi della magione elvetica a sterili corridoi e sotterranei pieni di attrezzature mediche. Tra una sessione di acquagym e una capatina nella sauna abbiamo modo di apprezzare una lettura geometrica degli scenari, quasi a sottolinearne la natura artificiosa e di conseguenza il terribile segreto che trasuda da ogni parete. Diversi elementi del set non stonerebbero affatto nella Rapture di Bioshock, incluse le enormi vasche di sospensione.
Come in The Ring, l’acqua assume una connotazione negativa e legata alla morte, allontanandosi da quell’ideale di elemento in grado di donare la vita. I pazienti vengono invitati a bere dalle fresche fonti di montagna, nuotano nelle piscine, eppure sono sempre più deboli e disidratati. Il confine tra cura e malattia si assottiglia, dando origine a una forma di dipendenza che rende impossibile andarsene dalla clinica. Gli anziani ospiti diventano così le vittime di un mastermind pervaso da un ideale distorto di purezza. Nell’ultimo atto, invece, viene accantonata ogni pretesa allegorica per buttarci in faccia un boss finale da Wolfenstein.
Justin Haythe non sforna uno script a prova di bomba ma gioca piacevolmente con le ambiguità, le sequenze allucinate e un tono decadente che non lesina sulle citazioni letterarie (Thomas Mann con La montagna incantata e le opere di Lovecraft su tutte). Verbinski ci mette molto del suo, omaggia una miriade di generi (tra cui il gotico italiano) e si diverte a imbottire la parte centrale di suspense: i long take, la fotografia simmetrica (vedasi Shining ma anche Suspiria) accentuano il contrasto tra le panoramiche irreali delle Alpi e le opprimenti stanze dove si consuma perfino un pizzico di body horror (torture da Hostel e contaminazioni biologiche per un male che viene “da dentro”).
Una messa in scena ludica, piaciona, alla costante ricerca dell’eccellenza stilistica e della nostra spasmodica attenzione, forse per supplire a un enigma di fondo che non c’è: la soluzione anticlimatica al mistero è intuibile in pochi minuti, è scritta negli occhi falsamente accoglienti del personale di servizio e, a momenti, anche negli asciugamani del bagno turco. Lo spettacolo si sostituisce al racconto, un po’ come le terapie di Volmer che fanno le veci del morbo. Nemmeno il minutaggio arriva in nostro soccorso: dopo quasi due ore e mezza di visita, il dottore risolve tutto con due righe su un ricettario, ve lo consegna e voi non ci capite un ciufolo grazie alla sua leggendaria calligrafia, ma nemmeno vi importa, perché nel frattempo lo strano dolore al costato è sparito e la segretaria non era niente male (specie se è Mia Goth ricoperta di pesce).
questo film è dalla sua uscita che mi interessa ma per un motivo o l’altro non l’ho ancora visto
Il design degli ambienti merita molto, si respira un bel mood, ma per il resto eravamo troppo carichi di aspettative.