Bly Manor e i suoi inquilini passivo-aggressivi secondo Prime Video.
di Alessandro Sivieri
“Voglio sapere soltanto una cosa: i suoi bambini sono beneducati o hanno bisogno di qualche leggera sberla di tanto in tanto?”
La pedagogia ha fatto enormi passi in avanti rispetto ai buffi scherzi telefonici di Robin Williams in Mrs. Doubtfire, eppure al cospetto di questo The Turning (al quale un gibbone di italica stirpe ha appiccicato il sottotitolo La casa del male) ci si ritrova con un fastidioso prurito alle mani, infelice sostituto dei brividi lungo la schiena. Parliamo di uno di quegli horror senza arte né parte, destinati a ingrassare il catalogo di qualche servizio di streaming, in questo caso il colosso Amazon Prime Video. Invero ci si aspetterebbe una soglia minima garantita di cardiopalma, specie quando al vertice della produzione troviamo un certo Steven Spielberg con la DreamWorks Pictures.
La pellicola si ispira al celebre racconto di Henry James Il giro di vite, al pari della serie The Haunting of Bly Manor, sviluppata da Mike Flanagan per Netflix. L’idea iniziale prevedeva alla regia Juan Carlos Fresnadillo, rinomato per le carneficine di zombie in 28 settimane dopo, ma il progetto naufragò in fase di pre-produzione, con diverse riscritture e 5 milioni di budget già spesi. Si ripartì con uno script “resettato” e con Fresnadillo fuori dai giochi, per fare posto a Floria Sigismondi. La regista pescarese vanta esperienze in una mole di videoclip, insieme alla direzione di alcuni episodi per Daredevil, The Handmaid’s Tale e American Gods. Cosa mancava nel menù? Qualche nome di grido nel cast, quindi ecco spuntare la talentuosa Mackenzie Davis e Finn Wolfhard, star di Stranger Things. Passato il prologo, volano schiaffi (non quelli a Finn, ma allo spettatore per mantenerlo cosciente).
La storia si focalizza su Kate Mandell (Davis), una giovane donna che si arrangia come può e che sopporta il calvario di una madre rinchiusa in un istituto psichiatrico. Per affermare la propria stabilità emotiva e dare affetto a una ragazzina segnata dai traumi (come lei, del resto), Kate accetta l’incarico di istitutrice privata presso la remota tenuta Fairchild. I presupposti non sono allegri: la candidata precedente, la signorina Jessel, è scomparsa senza lasciare traccia. La protagonista giunge alla residenza e fa la conoscenza di Flora (Brooklynn Prince), la sua protetta. Flora è orfana e ha assistito all’incidente che costò la vita ai genitori. A occuparsi della casa è rimasta l’anziana Mrs. Grose (Barbara Marten), alla quale va conferita una laurea ad honorem in stronzaggine applicata.
Ammazza la vecchia, col Finn!
Kate sembra stringere un legame con la bambina, ma il rapporto con la vecchia governante non è certo dei migliori. Nelle ore notturne la casa stregata offre il pacchetto completo (parliamo di un film che aderisce a un preciso sottogenere del paranormale), in un tripudio di visioni inquietanti, ombre dietro le finestre e assi che scricchiolano. Il peggio, però, deve ancora venire e si chiama Miles. Il ragazzo (Wolfhard) è il fratello maggiore di Flora ed è stato cacciato dal collegio dopo aver picchiato un compagno. L’adolescente ribelle prende subito di mira Kate, facendola sentire a disagio, ed esercita un’influenza negativa sulla sorella. Le apparizioni si intensificano, Kate perde progressivamente il controllo di se stessa e torbidi segreti vengono a galla.
Il chiaro intento è di adagiarsi sul filone delle haunted house, prendendo in prestito soluzioni formali che vanno da Haunting – Presenze a The Others, senza trovate narrative in grado di ravvivare la tensione. Mackenzie Davis si è lasciata apprezzare sia in ruoli di contorno (Blade Runner 2049) sia nelle scazzottate con i cyborg (Terminator: Dark Fate) e ce la mette tutta per far trasparire la fragilità di Kate, la quale appare sempre più trasandata, anche dal lato costumistico, con il progredire degli eventi. Ahinoi, la regia preferisce ridurla a una macchietta che gira per i corridoi in penombra come se cercasse le lenti a contatto. La protagonista è materiale da mascolinità tossica per Finn Wolfhard, il quale ha tendenze bipolari, idolatra un giardiniere latitante e azzarda pure un tentativo di molestia. Non si chiede molto all’astro nascente dei fratelli Duffer, se non di avere una faccia tosta da far impazzire perfino Pennywise, compito che assolve egregiamente.
La scrittura si dibatte tra il sanguinoso mistero della magione e il continuo stress mentale di Kate, senza disporre del minutaggio o degli strumenti necessari per prendere una direzione netta. Il tema dell’ereditarietà dei disturbi psichiatrici, con tutti i dilemmi interiori che ne conseguono, è stato trattato con efficacia in horror di ben altra caratura (si pensi a Hereditary). Non bastano i jump scare tattici o una pur pregevole cornice di scenografie gotiche a salvare una operazione che vorrebbe essere ambigua e stimolante, ma riesce solo a confondere il pubblico. Questa gabbia di matti nel cuore del Maine, dove le eroine si perdono ancora nei seminterrati, chiude le danze con un turning point buttato lì, un finale tronco. Se l’ambizione di questo ultramegaspiegone era sorprendere o ribaltare l’intero impianto della storia, si rimane con un senso di insoddisfazione, quel sapore neutro che solo i PG-13 a buon mercato sanno dare. Quando cucini un piatto che la concorrenza conosce a menadito e lo servi fuori tempo massimo, vedi almeno di non scordare il sale.