Alex Garland ci mostra i maschi tossici col pirillo di fuori.
di Alessandro Sivieri
*ATTENZIONE: CONTIENE ALCUNI SPOILER*
Ti piacerebbe dirigere quello che scrivi? Voilà, lo sceneggiatore divenne regista, e che regista! Il britannico Alex Garland ha esordito nel cinema firmando lo script di due filmoni di Danny Boyle: 28 giorni dopo, considerato l’inizio di una seconda giovinezza per il filone zombie, e Sunshine, space opera in grado di competere con prodotti americani di genere analogo. Qualche anno dopo, il nostro ha deciso di passare dietro la macchina da presa per regalarci Ex Machina, sci-fi con Alicia Vikander sulla complessità delle interazioni tra un uomo e un robot senziente. È stato poi il turno di Annientamento, tratto dalla Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer. Confuso, concettualmente più squilibrato ma dotato di un paio di mostri memorabili e di scelte estetiche interessanti. Tirando le somme di vent’anni di carriera, Garland si è trovato a proprio agio nella fantascienza e nei turbamenti dell’uomo quando viene posto di fronte a una sua versione distorta, spesso creata da lui stesso.
Il terzo lavoro, Men, segna una migrazione verso l’horror, un terreno fertile per la sperimentazione da parte di nuove leve come Ari Aster e Robert Eggers, con tanto della A24 nella squadra di produzione, di fianco alla collaboratrice di lunga data DNA Films. Certo, noi la etichettiamo come horror, eppure l’ultima fatica di Garland darebbe dei problemi a chiunque tentasse di inquadrarla in un genere specifico. Weird, onirico, folle. Una visionaria gita nel Purgatorio che, affacciandosi all’epilogo diventa un delirio da overdose di barbiturici scaduti.
Attenzione, la caterva di aggettivi non significa che l’esperienza ci abbia soddisfatto. Siamo un po’ delusi, e il moto di delusione non dipende da qualche messaggio non colto o da un mancato apprezzamento della regia, quanto della difficoltà a trattenere i popcorn nello stomaco durante l’atto finale. L’ondata catartica di splatter, già responsabile delle reazioni scioccate a Cannes, sembra buttata lì tanto per destabilizzare lo spettatore invece di sostenere quella profondità simbolica che tanto millanta. Dallo stupore per le esplosioni di violenza si passa con scioltezza allo scollegamento del cervello tipico dei B-movie (categoria dalla quale Men vuole distanziarsi) o a uno sbuffo di esasperazione, quasi a dire “Ok, abbiamo capito, tiratela di meno”.
Cambia il genere, dunque, e con esso il ritmo e la struttura del racconto, ma viene portato in posizione dominante quel tema che si annidava nelle pellicole precedenti e che guidava le azioni dei protagonisti: la relazione tossica, la coppia squilibrata e impossibilitata a comunicare in modo aperto. In Ex Machina la conoscenza tra un essere organico e uno artificiale diventa una seduzione manipolatoria, mentre in Annientamento si gioca con la figura del doppio artificiale in un matrimonio che aveva perso mordente ancora prima della spedizione nell’Area X. Ebbene, in Men incontriamo Harper (Jessie Buckley), una donna in fuga dai sensi di colpa e dal peso del ruolo sociale tradizionalmente attribuito al suo sesso. In seguito a una lite per l’imminente divorzio, sfociata in abusi fisici, il marito di Harper si è suicidato, lasciando un senso di vuoto nella protagonista, che ora deve elaborare l’accaduto e liberarsi delle tracce dei ricatti emotivi portati avanti dall’uomo.
Quanto è stata brutale la separazione? Il fattaccio viene mostrato nel prologo, accompagnato da una cover di Love Song di Elton John e da toni caldi, sanguigni. Un flashback concentrato sulla prospettiva di Harper, nella quale ci immergeremo completamente, fino alla frammentazione di ciò che consideriamo reale. L’ultimo, fatale incrocio di sguardi dei coniugi e poi cambiano in un colpo solo scenario e paletta cromatica, in linea con l’esistenza di Harper, che riparte da zero e decide di affittare una villetta in un paesino abitato da stronzi. Lo scopo è prendersi due settimane per rinascere nel piccolo villaggio di Cotson, tipica campagna inglese con pioggia incessante e frequentatori di pub con i denti ingialliti. Il proprietario di casa Geoffrey (Rory Kinnear) ha giusto il tempo di fare delle gaffe notevoli prima di lasciare Harper sola con i propri ricordi.
Disfatte le valigie, la donna si presta a passeggiate solitarie nei sentieri circostanti, ed è qui che emerge la passione del regista per un pezzo grosso della cinematografia russa ed europea: Andrej Tarkovskij. Sì, gli piace proprio, e ce ne accorgiamo già in Annientamento, tratto da una serie di romanzi le cui premesse narrative devono molto a Stalker. In entrambe le storie si parla di un’avventura nell’ignoto, in una zona di esclusione dove sono accaduti strani fenomeni e le leggi della fisica vengono sovvertite. Il viaggio della scienziata Natalie Portman diventa un cammino interiore in cerca di risposte, proprio come quello dei “clienti” dello Stalker.
La medesima formula viene adattata alla gita campestre e la Portman viene rimpiazzata da Jessie Buckley che si aggira in una natura silenziosa, cristallizzata. La camera indugia su fiori da campo, tunnel ferroviari in disuso e pozzanghere che riflettono una location progressivamente priva di riferimenti spazio-temporali. Un luogo dal sentore alieno nella sua primordialità, accostabile alla celebre Zona contaminata. Vuoi per la situazione, vuoi per l’abbigliamento, Harper sembra calcare le orme del serafico Aleksandr Kajdanovskij! Non si sa bene cosa la ragazza stia cercando nelle vallate piovose. Rigenerazione, pace, espiazione… probabilmente non lo sa nemmeno lei. Ciò che trova è un uomo nudo in fondo a un tunnel, un vagabondo selvaggio che la insegue senza tregua (It follows con il birillo al vento).
Siamo inglesi, niente frutta.
L’esibizionista diventa uno stalker provetto (penalmente parlando) e si fa trovare nel giardino della protagonista, dove coglie l’occasione per razziare un frutteto. Ovviamente trattasi di un albero di mele, cioè il frutto proibito… toh, le coincidenze. Harper riesce a far arrestare lo sconosciuto mentre l’armonia ritrovata è un lontano ricordo. Non solo il nudista dei boschi verrà rilasciato per insufficienza di prove, ma gli incontri peggiori iniziano ora: una gita in paese rivela un microcosmo di ragazzi psicolabili, poliziotti malmostosi e vicari lascivi che minimizzano la violenza domestica. Guarda caso hanno tutti il volto di Rory Kinnear, il quale ha l’occasione di sbizzarrirsi in una moltitudine di ruoli che incarnano le varie declinazioni del patriarcato. Gli abitanti di Cotson misurano Harper, si prendono certe libertà senza il suo consenso e la colpevolizzano se si ribella, dando il via a una sorta di gaslighting collettivo.
I contorni della realtà sfumano definitivamente mentre la donna viene perseguitata dalla memoria, osserva altari pagani e si abbandona a urla laceranti miscelate alla musica sacra. Lo spettro del marito è dietro l’angolo, in forma di personaggi grotteschi che ricordano alla vedova il matrimonio turbolento, si mostrano attratti da lei in modo viscerale e al contempo condannano questo suo “potere” inconsapevole. Agli occhi maschili, le capacità seduttive della donna sono una minaccia a prescindere dall’autoconsapevolezza di quest’ultima, che va quindi punita e addomesticata.
Tira più un pelo di Harper che carretto di mele, e il film si scopre pieno di elementi che rimandano all’antro femminile, dalla stessa galleria ferroviaria alle raffigurazioni sull’antica urna (iconografie denominate Sheela na Gig). Lo zampino della A24 si fa sentire proprio tramite la presenza di elementi folk ed esoterici, uno su tutti il vagabondo nudo che si trasforma in un verdastro spirito dei boschi. Perché? Perché sì, magari Ari Aster è passato a scolarsi una tanica di idromele e ha lasciato in giro degli oggetti di scena.
Le visioni mistiche e la dissoluzione del tempo derivano da un punto di vista saldamente ancorato alla protagonista, sempre più disorientata, che si rifugia in casa per resistere alle angherie degli archetipi maritali. Nell’ultimo atto vengono perciò abbandonati gli esterni dell’Inghilterra rurale per trincerarsi in una fase da home invasion, scandita da vetri rotti e serrature forzate, saturata di colori accesi, come se Cane di paglia incontrasse Dario Argento. I personaggi di Rory Kinnear si alternano nel loro schema mentale di odio-ossessione nei confronti di Harper e accorciano la distanza fisica fino a un tentativo di violenza, che lei respinge con decisione. L’autodifesa procura delle ferite condivise da tutte le entità e che rimandano, ancora una volta, alla tragica fine del marito James (Papa Essiedu).
Gli agguati dietro le porte chiuse diventano una formula ridondante, dati i limiti della location, e durante le fughe di Harper vengono inseriti nel montaggio dei cosiddetti “alternative shot“, momenti dove Jessie Buckley ripete un’azione che differisce ogni volta per qualche dettaglio (un gesto, uno sguardo). Una scelta interpretabile come la materializzazione extradiegetica delle insicurezze della protagonista, dei suoi “se avessi” e “se fosse”. Una parola di troppo ha portato alla morte del coniuge? O alla loro crisi di coppia? Se Harper avesse agito diversamente, lei sarebbe più felice e Jason vivo?
Difficile accertare le intenzioni della regia quando la pellicola, fuori controllo come la sua antieroina, ha già mandato in vacca ogni pretesa di credibilità pur di liricizzare ogni sequenza… da oggi con il 100% di cori da chiesa in più. Il culmine viene raggiunto quando i personaggi (il padrone di casa, il vicario, il nano antipatico) iniziano a partorirsi l’un l’altro, in un epilogo che non risparmia dettagli grafici e secchiate di splatter. Volendo fare gli avvocati del diavolo, questa piega da body horror è un’ulteriore conferma della volontà di rendere tangibili la angosce della protagonista: i persecutori si generano l’un l’altro senza sosta proprio come le crudeltà di James, destinate a ripetersi nel tempo (motivo per il quale vale la regola di andarsene al primo schiaffo). I “neonati” strisciano verso Harper in preda all’agonia, rispecchiando il vittimismo del carnefice che si fa passare per vittima, oltre a scimmiottare una facoltà – quella del parto – prettamente femminile.
Il tallone d’Achille di questo Men non è la partenogenesi misogina spinta sul filo del ridicolo (sì, la risatina potrebbe battere il disgusto), quanto l’estrema ripetizione di un messaggio che era già lapalissiano nei primi trenta minuti e che forse non necessitava di un punto esclamativo di tale portata. Da piatto forte quale vorrebbe essere, l’escalation finale si riduce così a un libro sottolineato più volte, dove gli argomenti sono terminati in anticipo rispetto alle idee visive. Quello che ci resta è una liturgia del dolore, una celebrazione del conflitto insoluto tra i sessi che vuole assicurarsi ogni due secondi di sconcertare lo spettatore. I gentlemen sono avvertiti: nessuno sfugge all’ansia da prestazione, nemmeno chi si presenta nudo a una discussione e bussa senza usare le mani.
Quando il patriarcato suona, Garland risponde.