QUELLA CASA NEL BOSCO – Mostri e Metacinema

Accorpamento e distruzione degli stereotipi horror.

di Alessandro Sivieri

Se facciamo un passo indietro negli anni ’80 (decennio d’oro delle saghe horror) per parlare di case stregate, quali sono i titoli che spuntano dalla tomba? AmityvillePoltergeist e il divertentissimo La Casa con quelle due sagome di Sam Raimi e Bruce Campbell. Un regista e un attore protagonista in folle sintonia ci hanno regalato una trilogia che non lesina sugli spaventi e sulla componente splatter, il tutto in chiave goliardica. La mimica facciale di Campbell era la ciliegina sulla torta di un’atmosfera surreale, costruita a colpi di siparietti trash (una su tutte la scena della mano posseduta). Fortunatamente un piccolo gioiello del 2012 può suscitare emozioni simili. Ecco a voi Quella casa nel bosco, esordio registico di Drew Goddard, collaboratore di vecchia data di Joss Whedon (Serenity, The Avengers), qui in veste di produttore e co-autore della sceneggiatura.

La partnership creativa tra i due risale ai tempi di Buffy, l’ammazzavampiri e se c’è una caratteristica che Goddard ha assimilato dal “maestro” Joss è l’impronta geek e la capacità di rimescolare a piacimento i generi. Quella casa nel bosco è quasi un esercizio stilistico: c’è una gita di cinque studenti in un cottage isolato, ma fin dai titoli di testa scopriamo il complotto dietro le quinte. La tipica situazione dei giovanotti in pericolo nasconde un gioco a scatole cinesi. Attraverso gli occhi di Stitterson e Hadley (Richard Jenkins e Bradley Whitford), due tecnici impiegati in una struttura segreta, veniamo a conoscenza dell’astuta operazione che punta a sacrificare i ragazzi attraverso un rituale per salvare l’umanità dalla distruzione, che avverrebbe per mano di antiche divinità. Orientati a un controllo orwelliano della vita altrui, i tecnici si servono di svariati sotterfugi: telecamere di sorveglianza, barriere invisibili e la somministrazione di droghe ai cinque studenti affinché ognuno di essi si omologhi ai protagonisti delle pellicole slasher (lo spaccone, la ragazza facile, la verginella, lo sbandato).

Ognuno deve poi scatenare i propri carnefici attraverso degli artefatti sparsi in giro per la casa, simbolo di una tipologia di mostro con il relativo sottogenere horror. Attraverso queste analogie il regista svela una doppia messa in scena: affinché il film/rituale si compia, ambientazioni e personaggi devono adeguarsi agli stilemi produttivi, sotto lo sguardo attento dei tecnici/membri della troupe. Non solo un inedito divertissement, ma anche una critica indiretta alle produzioni mainstream degli ultimi decenni, colpevoli di aver appiattito e svenato il cinema horror.

Nonostante il sacrificio inizi a gonfie vele, con la liberazione di alcuni zombie e qualche omicidio, presto la catena si spezza grazie ai sopravvissuti Dana (Kristen Connolly) e Marty (Fran Kranz). Scoperto l’inganno, i due riescono a introdursi nella struttura sotterranea. Marty in particolare si rivela un personaggio chiave: essendo un consumatore abituale di marijuana, le droghe allucinogene non hanno effetto su di lui. L’epilogo si tinge di anarchia con la fuga di tutti i mostri prigionieri (spettri, mutanti, clown assassini, licantropi), che fanno strage dei tecnici e del personale di sicurezza. La conclusione vede la decisione di Dana e Marty di spezzare il rituale, consentendo agli Antichi di scatenarsi e distruggere l’umanità, giudicata dai due indegna di continuare a esistere.

L’intera vicenda segue un logico ragionamento metacinematografico: gli autori hanno riunito tutti i topoi dell’horror nella prima parte per poi distruggerli nella seconda, mostrandone fin da subito la natura artificiosa. L’emblema di questa catarsi concettuale è proprio la divertentissima scena dove i mostri, finalmente liberi, sterminano i propri assalitori per vendicarsi metaforicamente del loro abuso in campo cinematografico. Se ad alcuni potrà sembrare una storia pretestuosa, altri vedranno Quella casa nel bosco come una perla, una mosca bianca più che mai attuale in un panorama filmico sempre più saturo. Come le risate sono terapeutiche dopo una crisi, forse l’autoironia è l’arma adatta per riavviare un genere.

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