Il sadomasochismo onirico di Cliver Barker.
di Alessandro Sivieri
Tremate, novellini dell’horror: decenni fa irrompevano nelle nostre esistenze Pinhead e i suoi Cenobiti. Accanto ai vari Michael Myers, Leatherface e Freddy Krueger si erge fiero il sadico demone dal cranio chiodato, interpretato da Doug Bradley in quasi tutti gli episodi della saga. Ben diverso da un killer psicotico, Pinhead si dimostra posato e cortese, arrivando a concedere una possibilità di fuga alle sue vittime. La tortura, nella quale è un maestro, non viene inflitta per un sadismo fine a se stesso, ma è parte del suo modo di essere. Insomma, potrebbe stringervi la mano o imprigionarla in una tagliola, l’importante è l’emozione del momento.
Per apprezzare l’essenza di Hellraiser dobbiamo tornare alle origini, quando a dirigere l’orchestra c’era Clive Barker, scrittore, regista e illustratore britannico che da sempre sguazza nell’orrido, e che si è ritagliato una fetta di fan zelanti grazie al suo stile feroce e sanguinario. Il suo approccio creativo crossmediale gli ha permesso di avventurarsi anche nel mondo dei videogame, sfornando due titoli come Undying e Jericho, che vi consigliamo di recuperare. Cosa ci offre il suo esordio registico? Un personaggio iconico, un gore elevato all’arte, dimensioni infernali dove dolore e piacere si mescolano e che esistono al di là del nostro mondo, collegandosi a esso tramite portali e artefatti; realtà popolate da esseri mostruosi che renderebbero fiero Lovecraft. Per bussare alla porta, basta aprire la famigerata Scatola di Lemarchand!
In questa pellicola i mostri, nonostante il design pregevole e gli effetti pratici, hanno un ruolo marginale e compaiono in poche scene. Il vero mostro, quello che permette ai Cenobiti di scatenarsi, è l’essere umano, con le sue pulsioni e il suo edonismo.
Alla radice della storia c’è un dramma familiare, una vicenda di tradimenti e omicidi che mette a nudo le ipocrisie della società americana. Quella che nell’incipit è impegnata in un trasloco sembra la tipica famigliola, ma così non è: Julia (Clare Higgins) in passato ha avuto una torbida relazione con Frank (Sean Chapman), il fratello criminale del suo attuale marito, Larry (Andrew Robinson). Quando quest’ultimo si ferisce per sbaglio in soffitta, il sangue cade sul pavimento e fa sì che Frank faccia ritorno da una dimensione sconosciuta come cadavere ambulante.
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Julia ne viene a conoscenza e, in preda alla passione, aiuterà Frank a rigenerarsi, seducendo sconosciuti che poi attirerà in casa affinché il suo amante ne consumi il corpo. Questa catena di sangue e menzogne arriva a mettere in pericolo Larry e la figlia Kristy (Ashley Laurence), che tramite un antico artefatto (la fighissima Scatola) evoca i Cenobiti, con i quali stringe un patto per sbarazzarsi della coppia omicida.
Tratto da un racconto di Barker stesso, girato con un budget risicato e con gli addetti ai lavori in preda all’alcol, questo piccolo cult mette in scena visioni così orride da impedirci di guardare altrove, trascinando lo spettatore in un viaggio negli abissi più oscuri della mente umana. I Cenobiti non sono né angeli né demoni, seguono semplicemente la loro logica di rituali sadomasochisti, promettendo alle incaute vittime il culmine del godimento e della sofferenza, due sensazioni agli antipodi che arrivano a coincidere. È l’uomo a cercare il mostro, quel tipo di uomo animalesco e privo di sentimenti che sfrutta e uccide i propri simili.
Proprio questa lettura psicologica, edificante senza essere moralista (Pinhead è un giudice imparziale), salva il film dal banale canovaccio del “tizio depensante che scatena il male grazie a un oggetto magico”. Certo, il sottotitolo della versione italiana era “Non ci sono limiti”, ma dobbiamo ravvisarne alcuni: la regia ambiziosa lotta per il dominio con set e mezzi esigui, mentre la giovane Kristy non si discosta dalle insipide pulzelle in fuga da un killer sfigurato. Nulla che possa intaccare una delle declinazioni più estreme e ambigue dell’horror anni ’80. A smontare la mitologia creata da Barker ci penseranno gli infiniti sequel e il declassamento dello splatter da autentica componente narrativa a semplice contorno per palati annoiati.
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