di Cristiano Bolla
Nella rassegna dei film candidati all’Oscar di quest’anno andava ancora riempita la casella del film strappalacrime. In attesa di Moonlight (il cui titolo negli honest poster è “Sad”) segnamo Lion di Garth Davis, film basato sul romanzo A Long Way Home di Saroo Brierley.
Saroo, in realtà Sheru, traduzione indiana di leone, Lion. L’autore del libro è infatti il protagonista del film con Dev Patel e Nicole Kidman (entrambi nominati agli Oscar) e che racconta, romanzandola un pochino, la vera storia di Saroo: all’età di cinque anni, aspettando il fratello di ritorno dal lavoro, prende per sbaglio un treno passeggeri vuoto che lo porta fino a Calcutta, a 1600 km dal suo paese natale, abbastanza perché cambi addirittura la lingua parlata (dall’hindi al bengali). Vaga per parecchio tempo tra la povertà estrema della città indiana e sfugge più volte alla presa della criminalità e della pedofilia. Viene poi adottato da una famiglia australiana e per 25 anni vive a Hobart, nell’isola di Tasmania, fino a quando (e questo è un piccolo difetto del film) un o jalebi (tipico dolce indiano) non gli ricorda la sua infanzia e scatena in lui un turbinio di emozioni.
Una storia del genere è sempre rischiosa: già girare un film con un bambino in mezzo alla povertà indiana e con la controfigura adulta affidata a Dev Patel può far immediatamente pensare ad una copia imbruttita di “Slumdog Millionaire”, che però era molto più movimentato e articolato. Il rischio di cadere in certe banalità, come lo jalebi sostituto della madeleine di Proust, è alto e l’esagerazione dietro l’angolo. Garth Davis però riesce a tenere basso il tono e a interiorizzare tutto il racconto. Il viaggio verso casa, in realtà, è vissuto dal Saroo adulto stando più nel suo salotto che per le strade in India, rispettando la realtà dei fatti: dopo Google Earth, infatti, il vero Saroo ha usato anche Facebook per cercare di capire quale fosse la sua città natale. Cose poco cinematografiche che, tuttavia, in Lion riescono a rendere al massimo.
Questo perché Lion è completamente tagliato in due parti: la prima lo porta nel punto più lontano possibile da casa sua, quell’Australia che è spesso sinonimo di lontananza, di “altro capo del mondo”; la seconda che lo riporta esattamente al punto di partenza, le rotaie del treno tante volte percorse da lui e suo fratello. Questo movimento “ad elastico” è perfetto per il tipo di storia: il piccolo Saroo (Sunny Pawar) affronta prove più fisiche, provanti, scappa a cose ignobili e al peggio che l’India sappia offrire, un paese sempre rappresentato tramite la sua estrema povertà e spesso cattiveria e noncuranza nei confronti del disagio. Il Saroo di Dev Patel, invece, si trova a combattere con qualcosa di invisibile e per certi versi più pericoloso: i ricordi d’infanzia, i flash della madre e del fratello e il più terribile avversario, l’empatia.
È questa la chiave di volta del film: l’empatizzazione di Saroo con i familiari a lungo persi. Un bambino lontano 25 anni da casa, che ormai si sente più australiano che indiano, improvvisamente si ritrova profondamente a disagio con tutto quel benessere e comodità perché nella sua testa rivive costantemente quelle parti di storia che neppure noi abbiamo potuto vedere. Il fratello che torna alla stazione per chiamarlo, il dolore della madre per la scomparsa del figlio: sono tutte situazioni che Saroo interiorizza e con cui empatizza, sente cioè le stesse emozioni dei suoi cari perduti e la cosa è talmente struggente da spingerlo a tornare indietro per cercarli. Non serve che sia un vero “on the road”, Google Earth può aiutare e reggere la tensione perché aiutata dal cambiamento emotivo (e purtroppo fisico: la trascuratezza di Dev Patel è un tocco un po’ estremo) del personaggio.
La figura dell’elastico è poi brillantemente sostenuta e confermata da un dettaglio che segna tutte le fasi della parabola di Saroo: un cucchiaio. Prima mangia con le mani, poi trova un cucchiaio e spia un giovane in un ristorante per capire come usarlo (lo stesso giovane che lo porterà alla polizia per aiutarlo); quindi gli viene insegnato a usarlo prima che venga adottato e infine durante una cena indiana a Melbourne torna a mangiare con le mani; parabola decisamente allegorica per mostrare il suo viaggio.
Con Lion Garth Davis ha giocato bene le carte a disposizione senza risultare troppo esagerato, volutamente struggente e poco credibile: il risultato è il film più “classico” di questa annata particolarmente piena di film ad altissimo tasso artistico e cinematografico. Per questo forse avrà poche soddisfazioni agli Oscar, ma Lion rimane comunque un ottimo film per veder rappresentato il più grande aggregante e motore dell’uomo: l’empatia.
GLI ALTRI CANDIDATI AL MIGLIOR FILM:
Arrival, di Denis Villeneuve
Fences, di Denzel Washington
Hacksaw Ridge, di Mel Gibson
Hell or High Water, di David Mackenzie
Hidden Figures, di Theodore Melfi
La La Land, di Damien Chazelle
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