di Cristiano Bolla
Ma chi se lo ricorda il mondo prima che arrivasse Netflix? Ammettiamolo: ore e ore di ricerche pirata per trovare l’episodio settimanale di una serie che, altrimenti, non saremmo riusciti a vedere. E invece eccolo lì, il mega catalogo sempre in aggiornamento e con contenuti originali. Che Netflix abbia svoltato il mercato non è una scoperta, ma è interessante notare come, assieme alla necessità di lanciare contenuti sempre nuovi, si stiano portando avanti serie che hanno una struttura produttiva abbastanza semplice ma efficace. Due esempi? Unbreakable Kimmy Schmidt e Master of None.
La prima è una sitcom creata da Tina Fey e Robert Carlock e ha fatto il suo debutto nel magico anno 2015, una sorta di momento spartiacque per la piattaforma. Ha per protagonisti Ellie Kemper e Titus Burgess e segue la vita della Unbreakable Kimmy Schmidt, ex-vittima di rapimento che ha passato oltre 15 anni chiusa in un bunker e trasferitasi a New York per ricominciare una nuova vita. A dispetto del soggetto bello pesante, la serie è scema, ma scema tanto: il suo punto forte è appunto l’assurdo, l’estremo, le situazioni talmente paradossali che, in un modo o nell’altro, fanno ridere. Se non siete fan del carattere caramelloso della protagonista, è impossibile non ridere con la spalla, Titus, o la padrona di casa Lilian (Carol Kane, anche nota come la madre del Pinguino di Gotham). Di fatto, la sitcom segue una trama molto, ma molto di maglia larga, affidando il grosso della sua riuscita dei singoli sketch. È arrivata alla terza stagione, come è andata?
Suspense. Parliamo dell’altra.
Nel frattempo, sempre a New York e sempre nel 2015, Aziz Ansari lanciava la sua Master of None, una serie che può vantare un indice di gradimento degli episodi vicinissimo al 100% su Rotten Tomatoes. E come fa? Anche qui, affidando ai singoli episodi il grosso del lavoro e preoccupandosi poco della narrazione orizzontale. Dev/Aziz funziona perché è brillantemente quotidiano, indaga il vissuto di un uomo semplice e che fondamentalmente non brilla in nessuna cosa che (il Maestro del Niente, appunto); una bella serie su come svangarla nella vita, insomma, come procedere passo passo in una vita che non sembra dare molto ne chiedere un particolare impegno se non sopravvivere la giornata. Alla fine della prima stagione Dev, dopo una delusione d’amore, decide di partire per l’Italia per imparare a fare la pasta. E qui lo ritroviamo all’inizio della seconda. Come è andata?
Uniamo i due giudizi sulle serie, perché il risultato permette un’analisi a tutto tondo. Entrambe sono cresciute in un modo a dir poco inaspettato: mantenendo la qualità, dribblando gli ostacoli e, soprattutto, evolvendosi. Unbreakable Kimmy Schmidt non era tenuta a farlo: se vi dico “sketch comedy che dura da anni, non cambia mai e francamente ha pure rotto le palle” e pensate a The Big Bang Theory allora potete seguire il ragionamento. In un mercato in un cui sfamare il pubblico è la cosa principale e al diavolo il resto, Fey&Carlock tirano fuori dal cilindro una stagione in cui tutto funziona come al solito, i cali di noia e ripetitività sono superabili ma soprattutto i personaggi si evolvono in modo credibile, consequenziale e persino divertente. Gattopardianamente, questi cambiamenti non alternano la sostanza della serie ne la snaturano (ogni riferimento a TBBT è voluto) ma la arricchiscono di quel particolare tocco in più che crea empatia verso personaggi assurdi. Bene, molto bene, quasi benissimo.
Stesso discorso per Master of None ma qui ci sarebbe da dire molto di più: limitiamoci a sottolineare come gli stereotipi sugli italiani rappresentati per tutta la stagione siano ampiamente perdonabili dalla squisitezza citazionistica che Aziz Ansari usa per rendere omaggio all’Italia, cinematografica e non. Al primo episodio in bianco e nero, mini-reboot stravagante di Ladri di Biciclette, segue una storia d’amore con Alessandra Mastronardi (ormai amatissima oltre-oceano); e se il pubblico U.S.A ora è in fissa con Edoardo Vianello e la sua “Guarda come Dondolo” è anche per via di episodi meravigliosi come il penultimo di Master of None, “Amarsi un po’”. Semplicemente magnifico. Il neorealismo è la matrice di riferimento perfetta per una serie che, alla fine, ambisce proprio a mostrare le diversità sociali tra uomo e uomo, usando degli stereotipi in chiave assolutamente realistica anche quando sembrano macchiette. Bene, molto bene, assolutamente benissimo.
Insomma Netflix, con queste sue produzioni originali, dimostra che fare serialità verticale con delle sitcom è possibile, che si può addirittura produrre più stagioni senza che l’intero circo diventi un gruppo di ex-nerd senza più niente da dire. E se al pacchetto ci aggiungiamo anche LOVE di Judd Apatow, la portata delle commedie raggiunge livelli ancora più eccelsi. Insomma: portare avanti serie del genere, con questo livello di qualità e creatività, ripaga la cancellazione di altre serie…
…E sì, parlo di Sense8. Ma questo è argomento per una prossima lettura.