di Alessandro Sivieri
I registi danesi sono individui strani, spesso accomunati da un’impronta estetica molto marcata e dai gusti provocatori. Tralasciando il nostro amato Lars Von Trier, non possiamo non considerare un collega ugualmente influente, che è Nicolas Winding Refn, autore della trilogia Pusher (con un giovane Mads Mikkelsen), dell’enigmatico Valhalla Rising, del selvaggio Bronson e di due pellicole che hanno canonizzato il mutismo di Ryan Gosling, ovvero Drive (rievocazione pulp che è già di culto) e Only God Forgives. Per quanto le sue opere siano estreme, Refn non ha mai rinunciato a una certa eleganza nella messa in scena, dominata da un uso espressivo dei colori (in particolare il rosso e il blu).
Se dobbiamo imputare un difetto al cineasta nordeuropeo, è la frequente mancanza di una scrittura in grado di supportare l’impianto visivo, caratteristica che si è accentuata in Only God Forgives e che brilla di prepotenza in questo The Neon Demon. Nell’opera precedente avevamo la faccia da poker di Gosling, la score elettronica di Cliff Martinez (qui meno incisivo) e la milfaggine di Kristin Scott Thomas a insaporire il piatto; questa volta non basta il fascino di Elle Fanning, Jena Malone, Abbey Lee e di tutte le altre spalle femminili a spazzare via il sapore di astrattezza. La fotografia si mantiene sull’alto livello a cui siamo abituati, ma l’inconsistenza dello script, sia nei dialoghi che nell’intreccio, finisce per oscurare tutti i lati positivi, mettendo a dura prova la pazienza. Nel migliore dei casi si termina visione giudicandolo “ermetico”, nel peggiore “pretenzioso” (se non contiamo le parolacce). Ed è un risultato che, se parliamo di uno dei miei registi preferiti, getta un’ombra di incertezza sulle pellicole a venire.
A una prima occhiata l’impostazione della storia, orientata al thriller psicologico, ricorda le peripezie di Natalie Portman in Black Swan: da un lato una ballerina insicura e tormentata, dall’altro un’aspirante modella con il volto angelico della Fanning. La sua Jesse è una ragazza di provincia che, ancora minorenne, entra nel circuito della moda. Lungo il cammino incontrerà colleghe invidiose e uomini che non si faranno scrupoli ad abusare di lei. La sua bellezza candida e naturale fa sì che tutti la notino, specialmente chi non è nato con questo dono e ha dovuto ricorrere a ritocchi chirurgici per adeguarsi ai canoni estetici del momento. Districandoci tra dialoghi traballanti e inopportune lungaggini riusciamo a grattare la superficie di Jesse, che scopriremo essere meno innocente di quando credevamo. Non è interessata alla sessualità e ai rapporti umani, preferisce vivere nel narcisismo, cogliendo le opportunità di carriera a qualunque costo. La grazia innata, come afferma lei stessa, è pericolosa. Le modelle più navigate, che inizialmente la schernivano, arrivano a desiderare di essere come lei, fino a cannibalizzarne letteralmente il corpo.
Non è la prima volta che al cinema viene sviscerato il concetto di purezza che corrompe e viene corrotta, ma lo stile di Refn è un’arma a doppio taglio: fanno godere gli occhi le inquadrature ricercate, le esplosioni cromatiche e di violenza che ricordano Suspiria di Dario Argento. Viene esaltata al meglio la presenza scenica della Fanning, nel calzante abito di musa acerba; un feticcio quasi sovrannaturale che riazzera gli standard della moda, con esiti catastrofici. Personalmente penso che sia più affascinante e dotata della sorella maggiore Dakota e che ci regalerà altre grandi interpretazioni in futuro. Le buone notizie però finiscono qui. Il cineasta danese non ha mai avuto mezze misure ma qui si chiude a riccio in un racconto eccessivamente allegorico, annacquando la sostanza con l’esercizio di stile. A risollevare l’animo non bastano corpi voluttuosi immersi nel sangue o Jena Malone che, in veste di truccatrice lesbica che riceve il due di picche dalla Fanning, sfoga le sue pulsioni su un cadavere. Una sequenza messa lì tanto per stupire e che odora di autoreferenzialità, come se l’autore volesse ricordare al pubblico la sua tendenza all’esplicito. Stesso discorso per Keanu Reeves che fa l’affittacamere maniaco, conciato come un delinquente dell’Est. Anche la critica al culto assolutistico dell’immagine, che ti porta a mangiare con gli occhi (in questo caso proprio gli occhi vengono divorati) ciò che vorresti avere, non rappresenta nulla di particolarmente innovativo. Le modelle di Refn sono volutamente involucri belli ma senz’anima, un po’ come il film stesso. Se siete alternativi fino al midollo e cercate un’esperienza sensoriale in grado di sedurvi e orripilarvi, probabilmente fa per voi. Se invece è la prima volta che avete a che fare con Refn, scegliete un’opera più digeribile.
bella recensione^^
se è molto estetizzante lo guarderò di sicuro