ANNABELLE 3 – Il museo del terrore

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La bambola indemoniata contro gli adolescenti nel pollaio.

di Alessandro Sivieri

Dopo la rinascita di Chucky, in questa estate horror dei pupazzi torna in scena anche Annabelle, bambola indemoniata realmente esistita e che fece notizia negli anni ’70. L’originale è una Raggedy Ann Doll ed è fatta di pezza, mentre la versione cinematografica sembra più un’action figure imbruttita di Regan de L’esorcista. Questo terzo spin-off di Annabelle fa parte del famigerato Conjuringverse, universo condiviso a tema paranormale che affonda le sue radici in The Conjuring di James Wan, già autore di Insidious e della saga di Saw – L’enigmista. L’epicentro di questa fiera dell’ectoplasma sono i coniugi Edward e Lorraine Warren (Patrick Wilson e Vera Farmiga), basati su una celebre coppia di demonologi-investigatori dell’occulto che presero realmente in custodia la bambola malefica.

Il prologo descrive proprio il prelievo del giocattolo e il ritorno in Connecticut. Dopo una sosta presso un cimitero vecchia scuola circondato dalla nebbia, Annabelle viene sistemata in una teca di vetro nel seminterrato di casa Warren. In poco tempo la coppia si accorge che essa è una calamita per altri demoni e presenze, cosa che la rende estremamente pericolosa, quindi sono necessarie tonnellate di benedizioni per tenerla a bada. Peccato che, puntuali come una cartella esattoriale, arrivino gli adolescenti cleptomani. La storia si concentra infatti sulla giovane Judy Warren (McKenna Grace), sulla sua babysitter Mary Ellen (Madison Iseman) e sull’amica Daniela Rios (Katie Sarife), mentre i coniugi abbandonano l’abitazione per una notte. L’esiguo screen time dei demonologi assume le sfumature di un cameo introduttivo per spianare la strada a nuovi protagonisti. Attraverso le peripezie della figlia Judy, timida e veggente come la madre, viene messo in scena il folklore che circonda gli Warren e il loro impatto sull’opinione pubblica.

Un cambio di marcia per una pellicola che, pur essendo un prodotto derivativo, si prende il suo tempo per contestualizzare gli eventi, accompagnandoli con qualche trovata visiva che alza il punteggio rispetto agli episodi precedenti. Il primo Annabelle era diretto da John R. Leonetti, già autore di Mortal Kombat – Distruzione totale, uno dei più brutti sequel mai fatti. La saga ha vissuto di registi prestanome fino a Gary Dauberman, già sceneggiatore di The Nun, che qui fa il suo sporco lavoro. La geometria di casa Warren e gli spostamenti dei personaggi vengono illustrati con movimenti di macchina gradevoli e long take che anticipano le apparizioni improvvise. Ci sono i jump scare, ma la loro distribuzione è oculata e sorretta da una tensione con degli sbocchi anticlimatici. Per la gioia degli spettatori più pazienti, questo non è un horror montato con un deficit di attenzione. Perfino il sound design e l’accompagnamento musicale si limitano agli spazi essenziali. Questo è in buona parte un film silenzioso e la cosa non stona affatto.

La medesima cura per le scenografie e la gestione dei tempi non si applica ai protagonisti: Judy è tipica figlia devota che frequenta la scuola cattolica e non riesce a farsi degli amici, districandosi tra visioni inquietanti e atti di bullismo, anche se in ultima risulterà la più risoluta del gruppo. Aggiungiamo l’ingenua Mary, babysitter biondina acqua e sapone con l’inalatore, e l’amica mora Daniela, che ovviamente è più spregiudicata e si infiltra in casa con l’unico scopo di frugare nel seminterrato maledetto e mettersi in contatto col padre defunto. A fare da contorno giunge il cassiere impacciato di un supermarket, che ha una cotta per Mary e che arriva sotto la finestra munito di chitarra per farle una serenata, dietro consiglio di un fattorino delle pizze disagiato.

Finito di cantare, il ragazzo verrà inseguito da un Mastino dei Baskerville e si rifugerà nel pollaio. Quando Annabelle viene liberata dalla sua prigione e scatena l’intero pantheon demoniaco degli Warren, ci freghiamo le mani per il disastro imminente, anche se nessuno si fa realmente male. C’è una riflessione articolata sulla gestione della morte e del lutto, ma alla fine dell’avventura il perbenismo da teen movie si dimostra più efficace dell’acqua santa.

Il luogo più interessante è doverosamente la cantina, il Warren’s Occult Museum basato fedelmente sull’originale, dove insieme ad Annabelle sono custoditi oggetti maledetti, posseduti o sfruttati per sinistri rituali. L’ingresso dei protagonisti nel museo permette allo spettatore di esplorare fisicamente il Conjuringverse e la sua mitologia, dove i dettagli hanno un peso e l’insidia può annidarsi su ogni scaffale. Il comparto sonoro fa percepire la minacciosità della bambola ancora prima che evada dalla sua teca. Una volta uscita, a sorpresa, Annabelle si fa da parte per evocare una serie di entità inedite, che potrebbero avere uno spin-off tutto loro. Alcune sono poco ispirate, altre si dimostrano efficaci e imprevedibili, come il potentissimo Traghettatore e il gioco Feeley Meeley. Da segnalare un demone interpretato da Joseph Bishara, autore della colonna sonora e già comparso come antagonista in Insidious (che resta il mio preferito).

A conti fatti il piatto forte è la location, che si articola in un ambiente domestico dove si gioca al gatto col topo e un seminterrato che farà felici i feticisti dell’occulto. Tra armature samurai e scimmiette con i piatti, sembra di essere nel Safarà, la bottega degli orrori di Dylan Dog. La convenzionalità scritturale viene mitigata da soluzioni visive che omaggiano Poltergeist, Piccoli Brividi e il grottesco di Sam Raimi. Abbondano le citazioni all’intero Conjuringverse e la pellicola stessa diventa un test screening per nuovi fantasmi da sviluppare. Sorvolando su un finale che non si prende alcun rischio, Annabelle Comes Home è un’esperienza family friendly ma senz’altro superiore ad altre costole filmiche come La Llorona.

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