Lo spin-off alle soglie del dimenticabile.
di Alessandro Sivieri
Più di vent’anni fa Barry Sonnenfeld dava il via a una delle saghe fantascientifiche più ricordate di sempre, mettendo un giovane Will Smith in completo scuro contro un Edgar Abito. Un mix di azione, ironia e mostri bavosi che evidentemente le major non sono disposte ad archiviare (o a riavviare in modo decente). L’idea di base è un’espansione del mondo in cui operano i Men in Black, agenti segreti con il compito di nascondere all’umanità l’esistenza di milioni di specie aliene, alcune particolarmente bellicose. Arriva quindi MIB: International di F. Gary Gray, che sposta la narrazione nella vecchia Europa e non solo, muovendosi da Londra e Parigi fino a Marrakesh, per sventare i piani di conquista di un’orrida razza di creature extradimensionali che vogliono sfruttare una super-arma. Interessante vedere come gli alieni si mimetizzino in modo a volte buffo nei diversi paesi, adattandosi alla cultura locale, ma il senso di mistero e meraviglia termina ancora prima di nascere.
Un prologo convincente e dal tocco spielberghiano ci mostra l’incontro fortuito tra una giovanissima Molly (Tessa Thompson) e una creatura spaziale dall’aria cucciolosa, che viene aiutata a fuggire dai Men in Black. Da allora la protagonista diventa ossessionata dagli Uomini in nero e trascorre la sua giovinezza a cercare le prove della loro esistenza. La Thompson rinuncia a una vita sociale e diventa una ragazza così istintiva e infallibile da rendere la Rey di Daisy Ridley una dilettante. Pur avendo i requisiti per entrare in una qualunque sezione dell’FBI, lavora in un call center pieno di indiani per hackerare un telescopio. Dopo aver rintracciato i MIB, viene interrogata dall’Agente O (Emma Thompson), a comando della sede newyorkese dell’agenzia. Un paio di complimenti sull’abito scuro fanno in modo che Molly diventi una stagista provetto, subito spedita nella filiale di Londra, dove potrà sfogare la sua esasperata attitudine da ficcanaso.
Qui conoscerà il megadirettore galattico High T, un Liam Neeson di cui intuiamo la reale portata nella storia già nelle prime battute, e lo scanzonato Agente H (Chris Hemsworth), con il quale farà coppia fissa. Thor e Valchiria si ritrovano quindi riuniti in un canovaccio di contrasti caratteriali piuttosto prevedibili: l’allieva perfetta e zelante contro il veterano che non prende nulla sul serio e che alla riuscita di una missione preferisce un bel paio di gambe (o un bel trio di braccia). Il suo licenziamento viene costantemente evitato dal gran capo, con il quale ha un legame di amicizia. A Hemsworth non basta un talento comico affermato per schiodarsi da una bidimensionalità che gli viene addossata dalla scrittura, costringendolo a fare figuracce solo per mettere in mostra l’onnipresente girl power della Thompson (momento memorabile la battuta sulle ipotetiche Women in Black).
La varietà di specie aliene e la loro resa grafica sono meno convincenti degli altri episodi, incluso un pedone da scacchiera che diventa un forzato deus ex machina e una irrilevante spalla comica. La stessa agenzia dei MIB inizia a somigliare al comando dello SHIELD unito al Ministero della Magia. Il campionario di antagonisti è lontano anni luce dallo scarrafone che infestava Vincent D’Onofrio e si limita a proporre umanoidi eterei alla Dark Phoenix intervallati a bestie tentacolute. Di fronte a una schermaglia tra i sessi che usa la fantascienza solo come un pretesto, verrebbe voglia di farsi dare un Neuralizzatore e dimenticare quanto visto.
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Yeee, quarta recensione negativa 🤣