Una seconda discesa negli oceani con mostri affamati e avventure sottomarine.
di Alessandro Sivieri
L’ossigeno nelle bombole è prossimo allo zero. Visibilità scarsa. Sentite qualcosa di veloce sfiorarvi il fianco e proseguire. Forse vi ha lacerato la muta da sub. Un viscido tentacolo spunta a tradimento dalla barriera corallina per afferrarvi il piede e sprofondate verso il nulla, maledicendo il giorno in cui non avete scelto il deserto del Gobi come meta vacanziera. Tiriamo il fiato con questo secondo capitolo de I Film negli Abissi degli Anni 80, dove passiamo al setaccio l’esplosione di pellicole oceaniche con mostri dell’epoca. La produzione di The Abyss di James Cameron sembra aver innescato una reazione a catena negli altri studios, che hanno pensato di frullare Alien con Lo squalo e 20000 leghe sotto i mari, ottenendo prodotti non sempre all’altezza.
Mentre l’opera cameroniana ha risvolti poetici e pacifisti, i progetti speculari della concorrenza riprendono la formula dei protagonisti isolati alle prese con una schifezza marina. Giusto perché era poco pratico agguantare uno Xenomorfo, mettergli le pinne con il nastro adesivo e ficcargli la testa sotto l’acqua. O costringerlo ad accoppiarsi con una murena per ottenere un figlio ideale. Nel gennaio del 1989, ancora prima di The Abyss, vede la luce DeepStar Six di Sean S. Cunningham, il regista dell’originale Venerdì 13. Iniziamo con questo giro di boa, che include donne in dolce attesa, allagamenti e aragostone preistoriche.
DEEPSTAR SIX di SEAN S. CUNNINGHAM
Giunto in Italia come Creatura degli abissi, il film ha avuto una gestazione parecchio lunga. I lavori iniziarono nel settembre del 1987, con problemi logistici vari. Cunningham figurava come produttore e subentrò alla regia di malavoglia, data la scarsità di alternative. Parliamo della persona che ha donato al mondo Jason Voorhees e che ha finanziato l’opera d’esordio di Wes Craven, ovvero L’ultima casa a sinistra. Da Venerdì 13 viene preso in prestito anche il compositore Harry Manfredini, mentre la bestiaccia affamata viene disegnata da Chris Walas, il creatore dei malefici Gremlins e de La mosca di David Cronenberg. Per la realizzazione concreta del mostro, Walas collabora con Mark Shostrom, specialista del make-up già famoso per Nightmare e Videodrome. Ragazzi, che squadrone! A dispetto dei talenti coinvolti, le rotture di scatole abbondano, con la disperazione del timoniere Sean Prosciuttoscaltro.
La volontà di stringere i tempi per battere la corsa di James Cameron è fonte di stress e scelte azzardate. Come nel caso di Leviathan, l’impiego di discreti mezzi artistici viene nullificato dalla fretta patologica e da uno script che pesca a colpi di dinamite dai fantahorror passati. Stando a Cunningham, uno dei maggiori ostacoli era dare l’impressione di essere sotto l’acqua senza combinare disastri e rovinare le attrezzature. Eccoci dunque nella base sottomarina DeepStar Six, a 5000 metri di profondità. I manovali scorbutici della struttura hanno il compito di piazzare dei missili nucleari sul fondale, mentre gli scienziati studiano le peculiarità geologiche e faunistiche della zona. Gli scontri tra cervelloni e operai sono all’ordine del giorno, specie se si tratta di fare ricerche in una enorme caverna appena scoperta. La splendida Nia Peeples interpreta la studiosa Scarpelli, utile a lamentarsi e a mostrarci una sessione di ginnastica prima di diventare cibo per i pesci.
DeepStar Six-Pack
Le vere star sono la biondina Joyce (Nancy Everhard) e il virile McBride (Greg Evigan). Quest’ultimo, con canotta, piastrine e barba insolente, può passare per il nipotino di Wolverine. La storia d’amore tra i due ci ammorba dal principio, ritagliandosi quadretti da soap opera fino alla comparsa della bestia. McBride è il rude solitario che non vuole storie serie, ma il suo siluro ha fatto centro fin troppo bene, perché Joyce è incinta. La gravidanza procura alla coppia una inevitabile plot armor, mentre decidono il nome del bambino e si lasciano dietro i cadaveri dei colleghi.
Episodio pilota di “Bruttiful”.
Eh sì, perché succede un gran casino: una cavità subacquea rivela un ecosistema mai visto prima. Prima viene sistemata la piattaforma missilistica, prima si può tornare in superficie, quindi al diavolo le precauzioni e vediamo di far arrabbiare qualche pescione. Infatti una mefitica creatura si incazza per l’intrusione degli umani nel suo habitat. Dopo essersi pappata due tecnici svogliati (ci sono sempre un Brett e un Parker, è nel contratto), inizia a sfondare paratie e causare allagamenti.
Alfred Hitchcock e un ebreo ortodosso pronti a mettersi nei guai.
Il predatore marino è quasi superfluo di fronte a un equipaggio di depensanti che si fanno del male da soli: incastrarsi in un boccaporto, infilzarsi con la fiocina a vicenda, esplodere secondo le logiche della Coca & Mentos. Scambi di battute e sfottò cercano di imbastire una dinamica di rapporti credibile e una gerarchia interna, ma tutto quello che ci interessa è dove potrà spingersi la loro idiozia. Si discute delle mansioni quotidiane e degli imprevisti intorno a un tavolo, ed è subito Alien.
Il Premio per lo Scemocretino dell’anno va senza dubbio al meccanico Snyder, con il volto di Miguel Ferrer (visto anche in RoboCop e Hot Shots! 2). Burino, rabbioso e paranoico, Ferrer si fa odiare così bene da tenere in piedi tutta la seconda parte, adagiata sulle strategie di sopravvivenza mentre il mostro latita. Peccato che Snyder combini così tanti danni da sconfinare nel grottesco, roba che neanche un sordomuto cieco sotto tortura con un lanciamissili in mano. Invece di mettere in sicurezza i missili un attimo prima di evacuare, causa una detonazione che danneggia tutta la stazione, fa collassare le caverne e scatena la furia omicida del bestione.
Snyder e la gestione del panico.
Il bello arriva quando quest’ultimo si intrufola in una stanza allagata e pasteggia con le succose vittime. Un’attesa eccessiva per quello che si rivela un incrocio tra un Graboid e una aragosta mutante. Il vermone meccanico non lascia il segno ma almeno introduce dei momenti splatter. I superstiti devono riparare dei circuiti necessari alla fuga e decidono di affrontare la bestia con delle fiocine esplosive. Snyder non ci pensa due volte e fa saltare il tronfio dottor Van Gelder (Marius Weyers). Il faccia a faccia con il mostro lo ha portato a uno shock perenne, costringendo gli altri a sedarlo dopo un match di boxe con McBride.
Il testamento artistico di Snyder è una fuga allucinata dentro la capsula di salvataggio, senza aver attraversato la fase di decompressione. Risalendo in superficie, il meccanico si spappola come una lattina di birra lanciata dal quinto piano. Joyce e McBride, in nome della famiglia felice, si ingegnano per fuggire, ma la riemersione dell’aragosta per lo showdown finale è scontata. McBride sparge liquido infiammabile, riduce il pupazzo a una grigliata e così ha termine l’avventura. La coppia può remare felicemente verso… un’isola deserta? Un peschereccio? La morte per inedia?
Quattro salti in padella.
Questo giocattolone acquatico da 8 milioni di dollari si congeda in fretta dalla memoria a breve termine, frattaglie di Miguel Ferrer a parte. Il lato scenografico ci serve la dose prescritta di oblò, console di comando con i tasti colorati e corridoi opprimenti. Il fondale si vede ben poco, anche se l’allestimento della caverna preistorica lasciava presagire un minimo di scorci intriganti. Momenti blandi e comicità involontaria lasciano poco screen time al mostro, che non fa abbastanza paura da giustificare il ritardo. Il ritmo, la tensione e le scelte visive di uno Spielberg o di uno Scott non sono facili da replicare. Per fortuna non hanno chiamato John Hurt per fargli scoppiare il petto in sala mensa.
“Oh no… ancora!!”
LORDS OF THE DEEP di MARY ANN FISHER
Non prendiamoci in giro: siamo al più alto livello di atrocità visiva. Alla produzione c’è il leggendario Roger Corman, conosciuto per i film horror a basso budget e per aver lanciato future stelle come Joe Dante, Ron Howard, Martin Scorsese e perfino quel James Cameron in procinto di lanciare The Abyss. Fiutando la nuova tendenza oceanica, Corman corre ai ripari e mette insieme questa avventura nautica con Mary Ann Fisher, che in passato aveva contribuito agli effetti speciali di 1997: Fuga da New York e prodotto I magnifici sette nello spazio dello stesso Corman. Insomma, c’è qualche soldo in campo ma latita un regista. Nel reparto make-up e modelli è da segnalare Steve Cotroneo, già impiegato in Creatura degli abissi. Cotroneo lavorerà in seguito ai blockbuster di Roland Emmerich.
Siamo in un catastrofico 2020, dove il buco dell’ozono si è dissolto e la superficie terrestre è diventata ormai inabitabile. Non si può passeggiare in tranquillità per strada, a meno che non si desideri un’ustione di secondo grado. Le grandi corporazioni degli Stati Uniti, come la Martel, decidono di colonizzare le profondità oceaniche con stazioni autonome e trivellazioni. Protagonista è una squadra di tecnici e scienziati della base Martel Neptune. Il gruppo è guidato dal comandante Stuart Dobler (Bardford Dillman, già visto in Piranha di Joe Dante), che esegue senza scrupoli qualunque ordine della compagnia. Ad assisterlo un computer parlante, lo scarto buggato della CPU Mother a bordo della Nostromo. Tutti i membri del cast sono vestiti con un incrocio tra un pigiama e una tuta da benzinaio.
Pigiama party nell’Enterprise.
Sul fronte scenografico e costumistico sembra di essere in una serie TV di qualche decennio prima, come se Gene Roddenberry stesse girando le stagioni originali di Star Trek, ma con due lire. Di abissi se ne vedono pochi e la storia si svolge per buona parte in interni. Pannelli pieni di lucette e interruttori, qualche tubo qua e là, un laboratorio con provette e piante ornamentali in vaso. Troppo forte l’impressione di un ufficio preso in affitto, arredato come capita e tenuto con le persiane abbassate. Il modellino esterno della stazione appare in una manciata di shot, così come le caverne dove si annidano i misteriosi “Signori del profondo“. I dipendenti paiono rendersi conto dell’apparenza ridicola e si attaccano alla bottiglia.
Bere per dimenticare il copione.
Si fa vicina l’ora del cambio di turno. La biologa Claire (Priscilla Barnes), in barba al buon senso, si toglie i guanti protettivi e tocca dei campioni gelatinosi prelevati in zona. Di colpo entra in contatto con delle voci eteree e ha una serie di visioni psichedeliche da risata assicurata. Colori abbaglianti e tunnel spaziali verranno proposti a più riprese dal montaggio, ogni volta che Claire ha una crisi mistica e parla con gli alieni.
La sicurezza prima di tutto.
I sommergibili mandati in esplorazione vengono attaccati da forze sconosciute. Un sommozzatore sparisce e la sua tuta viene ritrovata piena di gelatina. Questo impasto viscoso crescerà fino a trasformarsi in una manta con occhioni rossi. Gli ufficiali sono increduli e si chiedono come ucciderla, mentre Claire comunica con essa tramite telepatia, fa sogni lucidi e comprende di trovarsi davanti a una razza pacifista, giunta per salvare l’uomo dalla devastazione dell’equilibrio terrestre (quindi dalla sua stupidità). I pupazzoni delle creature hanno fattezze davvero cheap.

Claire viene informata dai pescioni, giunti sul pianeta tempo fa, che i fondali sono scossi da potenti terremoti e che l’intero ecosistema che li circonda ha le ore contate. Fortunatamente hanno preparato un nido di schiuma, bello pieno di ossigeno, per gli umani in cerca di un abbraccio. La bestia intanto evade e si rifugia nei condotti d’aria e nei lavandini, roba che manco lo Xenomorfo sotto acidi. Nessuno crede alla scienziata e al messaggio ecologico delle mante.
Come se non bastassero le scosse sismiche, il crudele comandante Dobler va fuori di testa e cerca di eliminare sia gli alieni che i suoi sottoposti, togliendo la riserva d’aria alle stanze. In queste fasi emerge la suprema desolazione attoriale, con gente che non è in grado di simulare un soffocamento e di fingersi morta per mezzo secondo. L’unico modo per inscenare i terremoti è farli agitare sulla poltrona e sballottare la telecamera. I superstiti riescono a disattivare il computer centrale (basta tranciare un cavo, altro che HAL 9000) e Dobler è costretto a picchiarli con una torcia. Scene di lotta da oratorio, mentre il pubblico spera che spuntino Kirk e Spock a stendere l’allegra brigata. Le faccette da pazzo di Bradford Dillman sono impagabili.
Effetto Dobler
L’integrità della base è compromessa e la formazione rocciosa su cui è costruita sta per collassare. Messo a nanna Dobler per l’ultima volta, Claire e il suo boyfriend raggiungono gli altri nell’alveare delle mante, una grotta schiumosa piena di luci intermittenti, allestita dal sosia ubriaco di Mario Bava. Baci, battutine e preparazione alla convivenza tra popoli, mentre il resto del mondo va a puttane.
Confessiamo che arrivare in fondo alla visione è stato difficoltoso. Alla scarsità di mezzi fa eco un ritmo blando con una parabola pacifista davvero simile a quella di Cameron. Le mante non suscitano né timore né tenerezza, i loro attacchi a cose e persone avvengono in prevalenza fuori campo. Un evidente caso di discrepanza tra le ambizioni dello script e le finanze a disposizione. Le prestazioni deludenti di Lords of the Deep e di Creatura degli abissi ci fanno rivalutare in positivo Leviathan di G. P. Cosmatos. In calce trovate i pochi shot gradevoli del film.
Ecco cosa NON vedrete in circa 80 minuti.
Tiriamo i remi in barca e torniamo al porto con un magro bottino. Se avete qualche ora da buttare, può uscirne un cacciucco per due. La nostra navigazione verso i lidi del cinema sottomarino non finisce qui, perciò aspettatevi nuovi capitoli con viscide schifosaggini e discese nell’ignoto. Ahoy!