WESTWORLD – Questi piaceri violenti hanno una fine così così

Tra le serie più importanti e riuscite dell’ultimo decennio, è impossibile non citare Westworld: anche la sua terza stagione, forse la meno riuscita, resta un prodotto di qualità assoluta.

di Cristiano Bolla

Cast di Westworld
“Still a better love story than Twilight”

Per chi scrive, quando si parla di serie tv c’è una triade che va citata, celebrata, studiata e mai messa in discussione: Twin Peaks, Lost e Breaking Bad. Sono queste le serie che più di ogni altre, negli ultimi 3 decenni, hanno rivoluzionato il concetto stesso di serialità televisiva e hanno contribuito a portarla alle vette in cui è ora. La differenza tra serie e cinema, oggi, è sottilissima per qualità e mezzi produttivi e una serie come Westworld della HBO è qui apposta per ricordarcelo. Più di ogni altra, Westworld è stata per un periodo in lizza per essere la nuova grande e imprescindibile serie da annoverare insieme a quelle dette. Poi, però…

Era partita col botto: un prodotto incredibile, sceneggiato da Jonathan Nolan e Lisa Joy, la prima stagione è stata esplosiva. Basata sull’omonimo film del 1973 diretto da Michael Crichton (sempre sia lodato lo scrittore che ha dato al mondo e a noi Jurassic Park), è ambientato in un parco divertimenti a tema western, in cui gli abitanti sono robot, androidi, chiamate attrazioni. Gli ospiti del parco, ricchi facoltosi in cerca di emozioni, possono fare quello che vogliono alle attrazioni, incluso ucciderle, stuprarle e dare sfogo a qualsiasi pulsione umana repressa “nel mondo vero”. Dove tutto è concesso è lo slogan del parco, almeno fin quando le attrazioni, a partire da Dolores (Evan Rachel Wood) non iniziano a prendere coscienza del proprio stato e a ribellarsi.

Evan Rachel Wood in Westworld
Grazie ancora per Thirteen, Evan Rachel Wood

La straordinarietà della prima stagione era la commistione e l’assoluta qualità di messa in scena tra il mondo western e quello iper-tecnologico di un futuro in cui siamo in grado di produrre questi androidi senzienti perfettamente umani; inoltre, tutta la stagione si risolveva in un intricato ma stimolante intreccio di linee temporali diverse (agevolate dal fatto che le attrazioni non invecchiano), che ha reso ogni puntata un puzzle pieno di colpi di scena meravigliosi. Su tutto, però, era l’apporto “filosofico” a dare ciccia alla serie: reificazione, deificazione, libero arbitrio, fenomenologia dello spirito (sempre caro anche Heidegger) sono solo alcuni dei temi importanti che vengono discussi tramite la realizzazione di “cose” divenute coscienze e quindi, nel caso di Maeve (Thandie Newton) addirittura qualcosa di simile al divino.

Tutte cose che, appunto, hanno reso l’inizio di Westworld una vera bomba, possibilmente la serie crack dopo Breaking Bad. Però così non è stato e lo si è visto anche dalla seconda stagione. Pur giocando sugli stessi stilemi (su tutti l’alternanza di linee temporali), si è rivelata più confusa, frammentata, a lunghi tratti noiosa. Ogni personaggio aveva una propria personale agenda, ma ogni puntata dava così poco allo spettatore che la sensazione di impoverimento di interesse era, per molti, palese. Da eccezionale, era diventata solo bellissima. Ora, con la terza stagione, forse non si può parlare di un ulteriore passo indietro, ma ha perso ancora qualcosa.

Per chi non avesse visto le prime due stagioni, lo SPOILER ALERT inizia da qui. Avvisati.

Aaron Paul in Westworld
Humandroid-ah no, Aaron Paul in Westworld

Dove eravamo rimasti: alla fine della seconda stagione Maeve è riuscita a liberare la maggior parte delle attrazioni, spostando la loro “mente” su un piano digitale, lasciando dietro di sé gli involucri. Contemporaneamente, la rivoluzione di Dolores ha portato alla sostanziale distruzione del parco e alla sua fuga verso il mondo esterno. Le vicende escono da quel mondo per entrare nel nostro, ambientato in un ipotetico iper-tecnologico futuro del 2058.

Da qui parte la terza stagione: Dolores muove guerra al mondo e all’uomo per aver creato tanta sofferenza nella sua gente, nelle attrazioni, niente più che oggetti da usare per i propri piaceri violenti che hanno una fine violenta (sempre caro Shakespeare, in questo caso). Ad aiutarla, c’è Caleb Nichols (Aaron Paul), il cliché dell’ex soldato traumatizzato dalla vita che ora si arrende ad essa e si limita al lavoro come operaio, completamente apatico fin quando non incontra sul suo cammino Dolores. Oltre loro, Maeve, ex prostituta da saloon e ora in grado di controllare le altre macchine, risvegliata dal più potente magnate del mondo, e Bernard, ex creatore di persone artificiali prima di scoprire di essere un’attrazione a sua volta e ora sulle tracce di Dolores per fermare i suoi piani.

Ed Harris in Westworld come William
E poi c’è Ed Harris, tre spanne sopra tutti

Come potete vedere, riassumere è difficile. Quello che interessa è che nella terza stagione Westworld ribalta completamente la situazione: dall’essere la storia di un parco di macchine governato dall’uomo, passa a raccontare un mondo di uomini dipendenti dalle macchine. Da una, soprattutto, Rehoboam, un enorme sfera tecnologica creata da Engerraund Serac (il cattivo magnate francese interpretato da Vincent Cassel) in grado di predire il futuro del mondo e di ogni singola persona. Alla fine della seconda stagione, infatti, si era scoperto che la Delos, la società del parco a tema Westworld e di molti altri, usava le azioni dei clienti per trarne informazioni e, come scopo ultimo, predire i loro comportamenti. Rehoboam fa questo: governa il mondo perché in grado, con la sua potenza di calcolo, di anticipare le scelte e le azioni di tutti. Se vi suona familiare, allora intravedete il problema della stagione.

Benché infatti anche la terza stagione sia produttivamente eccelsa, è anche quella più… banale. L’inversione del tema è interessante e ribalta la prospettiva: venendo a conoscenza di essere controllata da una macchina, ora è l’umanità che deve lottare per il proprio libero arbitrio. Tutto questo, però, è molto meno interessante di quanto visto prima perché già visto in precedenza. Tra Minority Report, Atto di Forza e via dicendo, non mancano prodotti di fantascienza in cui la libertà dell’uomo è messa in discussione, in cui si mette in scena la lotta tra uomo e macchina e via dicendo. Più di tutto, la terza stagione di Westworld perde l’elemento che la rendeva così interessante: la scenografia. E non è solo questione di preferire l’ambientazione western, ma di come quella fosse parte integrante della storia, di come rendesse tutto amalgamato al contesto e restituisse allo spettatore quello spiazzamento dato dalla differenza tra il tema da 1800 e le possibilità ultra-tecnologiche. Qui, invece, è “solo” un mondo futuristico, con tutti i suoi oggettini che fanno cose e le macchine senza guidatore.

Quindi, Westworld con la terza stagione è passata da bellissima a molto bella. Un altro piccolo passo indietro che non toglie la qualità produttiva e l’eccellenza di molti momenti, tra cui l’episodio Genre. Semplicemente, però, è stato tutto un po’ più banale, già visto, più piatto, soprattutto nei protagonisti storici, manovrati ma mai sopra le righe (Maeve su tutte, forse il più grande difetto della stagione) e con una fine che più che violenta è melensa. Da salvare c’è tantissimo, soprattutto nel già citato comparto filosofico che Westworld porta sempre con sé: è una serie che comunque spinge a ripensare, a valutare cosa faremmo noi in quelle situazioni, a chiederci se accetteremmo di vivere senza libero arbitrio o cosa questo sia in primo luogo.

C’è delusione, ma solo perché la prima stagione aveva mostrato qualcosa di talmente straordinario che accontentarci di qualcosa di meno ora sembra un peccato. Westworld proseguirà: l’uomo ora si è risvegliato dal suo torpore e dovrà decidere che fare con la propria libertà. Chiamiamola la Fase 2 di Westworld, se vogliamo: tanto va di moda.

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