John Kramer risorge con una trappola morale per lo spettatore.
di Alessandro Sivieri
*ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER*
“Ciao, Stegozilla. Voglio fare un gioco con te: per anni hai mangiato in salotto incurante delle briciole che cadevano a terra, per poi alzarti senza spazzare, facendo uscire dai gangheri i tuoi sventurati genitori. Ora ti do la possibilità di cambiare la tua vita: c’è una motosega appoggiata sullo scaffale Kallax alla tua destra. Dovrai raggiungerla e circonciderti con essa prima che scada il tempo, altrimenti verrai ricoperto di pangrattato e gettato nell’olio di mais incandescente. Vivere o soffriggere con una croccante panatura… fai la tua scelta.”
Venghino, signore e signori, venghino e indossino lo schiacciapollici per assistere al ritorno in pompa magna del principe del torture porn. Trattasi di un sottogenere filmico capace di attrarre una vasta platea, dagli adolescenti sgranocchiatori seriali di nachos agli addetti alle vendite in cerca di idee omicide. Spingendo a tavoletta sulla componente splatter, vengono mostrati individui più o meno innocenti alle prese con lamiere arrugginite, bisturi, filo spinato e una gamma incredibile di marchingegni sadici. Per salvarsi – sempre che sia nel ventaglio delle ipotesi – è necessario sacrificare un arto, rompersi delle dita, asportarsi un organo e così via, di fronte a una platea divisa tra il disgusto e la curiosità morbosa nei riguardi della sofferenza. Eh sì, anche le persone che normalmente piangono per una pellicina da tagliare assistono allo spettacolo cruento e si immedesimano nelle vittime, immaginando il dolore sulla propria pelle. Spinte da chissà quale pulsione, finiscono per desiderare che si verifichi l’eventualità più violenta. È un modo di esorcizzare i complessi sulla fragilità del nostro corpo (una macchina fantastica nel suo insieme ma suddivisa in ossa e tessuti da salvaguardare giornalmente) e, al contempo, di sfogare quella vena voyeuristica che contraddistingue l’essere umano.
La saga di Saw (di cui abbiamo discusso in questo pezzo leggermente datato) fa leva su queste pulsioni e le coniuga con un disegno intelligente. Non c’è la tortura caotica per facoltosi turisti di Hostel bensì il piano di un mastermind che ha architettato ogni tappa di questo sanguinoso percorso sulla base di un ideale supremo, analogamente al John Doe di Seven. La folle convinzione di essere nel giusto, unita a eccezionali capacità di inventiva, ha reso il Jigsaw di Tobin Bell una figura leggendaria. John Kramer – questa la sua identità da “civile” – è un ex-ingegnere che, oltre ad aver subito diversi smacchi esistenziali, riceve la diagnosi di una malattia terminale al cervello. Consapevole di avere poco tempo, si adopera per purificare il mondo a modo suo, coinvolgendo in giochi letali le persone che, a suo dire, hanno sprecato il dono della vita, vuoi per la dipendenza da droghe, vuoi per una condotta criminale.
Nonostante Jigsaw ami assistere a ogni prova, non gode della sofferenza altrui e non ha l’obiettivo di uccidere: ai prigionieri viene sempre fornito un sistema per salvarsi, sebbene l’opzione comporti un tributo fisico, nello stile della libbra di carne chiesta in pegno dall’usuraio Shylock. I sopravvissuti, secondo il pensiero di Kramer, escono purificati da questa esperienza a contatto con la morte e cambiano atteggiamento, evitando di ricadere nei medesimi vizi. Alla faccia della condanna riabilitativa! Fomentato dalla sua condizione di malato incurabile, Kramer si sente investito di un ruolo educativo al limite del god complex e di un senso della moralità infallibile, tanto da intrappolare nelle sue macchine chi è “solamente” colpevole di violazione della privacy o di intascare mazzette.
Il modus operandi del villain ha consentito alla saga (ideata nel 2004 da James Wan e Leigh Whannell) di espandersi in seguiti e spin-off che coprono quasi un ventennio e che vanno avanti e indietro nel tempo diegetico, svelando filoni narrativi paralleli a quanto accaduto nelle pellicole precedenti. I capitoli hanno dei marchi di fabbrica (il plot twist scioccante, il sinistro pupazzo Billy) e alzano progressivamente il tiro riguardo il numero di vittime e la creatività dei trabocchetti, aspetto che ha portato il franchise sull’orlo dell’autoparodia: allo stato attuale delle cose, pare che Jigsaw abbia avuto un esercito di discepoli e collaboratori in incognito (poco ci manca alla piccola startup), abbia diretto tre giochi mortali a settimana e si sia appellato ai pretesti più banali pur di calare la sua spada della giustizia sul passante incrociato per strada o sull’inserviente conosciuto all’asilo. Hai rubato dal portafoglio di nonna? ZAC, adesso dovrai segarti i piedi!
L’architettura delle trappole, nate come strumenti grezzi e ingegnosi, ha avuto alti e bassi, così come la regia e la scrittura dei singoli episodi: Saw – L’enigmista è per forza di cose l’esordio folgorante, la ventata d’aria fresca; il terzo e il quarto episodio, diretti da Darren Lynn Bousman, si sono distinti per l’elevato tasso di gore e per la bontà delle soluzioni visive, oltre a sancire l’effettiva morte di Jigsaw. Da quel momento la produzione non ha avuto particolari guizzi qualitativi, con l’eccezione di un buon Saw VI girato da Kevin Greutert, il quale torna al timone per Saw X. Il film in questione si prospetta come un ritorno alle origini dopo i vari Spiral e Saw Legacy, facendo leva su personaggi noti e concentrandosi sugli inizi di carriera del villain. Il rischio di fallibilità è alle stelle perché – dobbiamo essere onesti – la saga è stanca e Tobin Bell è vecchio in culo. In barba ai campanelli d’allarme, veniamo gettati in una sordida vicenda che ha luogo tra la prima e la seconda pellicola, quando John Kramer è ancora in circolazione.
Il celeberrimo Enigmista, presumibilmente, ha da poco terminato di seviziare Cary Elwes in un cesso e si prepara alle prossime mosse, tenendo monitorato il proprio stato di salute. La malattia avanza e il futuro corre verso il baratro. Più di ogni altro capitolo, Saw X ci cala nella prospettiva di John Kramer, spogliandolo per metà film delle sue invenzioni letali e rendendolo qualcosa di terribilmente simile a un povero vecchio con il cancro, qualcuno con cui è possibile empatizzare. Le analisi sono funeree, Tobin Bell si aggira per l’ospedale con una brutta cera e per qualche attimo ignoriamo che sia un folle torturatore con l’ego grande quanto un armadio a due ante. Particolarmente d’impatto la sequenza in cui sorprende un inserviente intento a sgraffignare gli effetti personali di un degente e immagina un raffinatissimo congegno in cui intrappolarlo, prima che il tizio abbia un lampo di coscienza e si salvi dall’atroce purificazione emersa dalle fantasie di John.
Tra una motosega mentale e l’altra accade qualcosa di molto insidioso: la speranza. Frequentando gruppi di sostegno, John viene a conoscenza di una cura sperimentale promossa da un medico norvegese, in grado di curare svariati tipi di mali (stando ai video su Internet). Ovviamente la scienza ufficiale ostracizza la terapia e i suoi ideatori sono costretti a somministrarla ai pazienti selezionati in cliniche improvvisate, dietro lauto compenso. Jigsaw cade perciò nei tranelli riservati a un settantenne qualunque che frequenta siti di dubbia attendibilità e incappa in ciarlatani che promettono miracoli, accusando i poteri forti di volerli ostacolare. Dopo qualche ricerca entra in contatto con la dottoressa Cecilia Pederson (Synnøve Macody Lund), sedicente figlia dell’inventore della cura, che gli dà appuntamento in Messico. Entra in gioco una riflessione sul business della disperazione e su quegli individui che lucrano sulle sofferenze dei malati oncologici, offrendogli vane speranze e dileguandosi con il malloppo. Tali mostri, purtroppo, esistono. Per loro sfortuna e per il nostro sollazzo, questa volta hanno deciso di truffare il tizio sbagliato.
Kramer intraprende un viaggio solitario verso il Messico e, come da prassi, la paletta cromatica vira verso il giallastro, perché nelle pellicole a stelle e strisce il Messico deve apparire come se guardassimo attraverso una bottiglia di Mezcal, chiaro?! John viene accolto nella clinica dall’affabile dottoressa e, dopo tanto tempo, ha dei contatti umani genuini; conosce anestesisti, chirurghi, ragazzini che giocano a pallone. Fioccano le testimonianze del personale sulla bontà della cura e la speranza si trasforma in certezza: è la volta buona, posso guarire. L’operazione sembra andare a buon fine e John si alza dal letto pronto a nuova esistenza. Niente più rancore, niente più bisogno di giocare al novello Torquemada con il prossimo… se non fosse che è tutta una colossale stronzata! Cecilia Pederson se n’è andata con il conto in banca pieno, l’equipe medica era formata da impostori e i locali sono abbandonati. Riaffiora l’Enigmista, più feroce che mai, e grazie alle indagini dell’amicone detective Hoffman (Costas Mandylor) per i truffatori non c’è scampo.
La Pederson e i suoi scagnozzi vengono rintracciati e imprigionati in un magazzino dove Jigsaw, accompagnato dalla fedele Amanda (Shawnee Smith), è pronto e dargli una lezioncina di correttezza a suon di mutilazioni. Si torna in territori familiari dopo un incipit focalizzato sull’umanità e sulla fragilità dell’aguzzino, determinato a vestire i panni di sempre per far sì che nessun altro cada nel tranello della cura farlocca. Gli elementi ci sono tutti: il pupazzo ciclista, le scenografie industriali, la patina verde-bluastra, il montaggio convulso e le carrellate che girano a 360° intorno alle vittime mentre il tempo sta per scadere. I marchingegni, invero, non brillano per originalità rispetto ai picchi della saga, ma la vera trappola è altrove, ed è di natura morale. Cecilia Pederson è, senza giri di parole, una persona di merda, una signora che non si fa scrupoli a raggirare chi sta patendo l’inferno e che sacrificherebbe qualunque compagno di merende pur di uscire viva dal gioco di Jigsaw.
Similmente a una Malefica o a una Cruella, John Kramer viene trattato come un antieroe, contrapposto a un individuo più deprecabile di lui. L’Enigmista è un pazzo criminale ma, pensando ai malati rimasti senza una lira, vogliamo che la Pederson sia punita, desideriamo che soffra, magari perdendo qualche appendice lungo la strada della redenzione forzata. Ecco il vero trabocchetto, la provocazione nei confronti dello spettatore, spinto a reclamare il sangue altrui secondo la legge del taglione, perché non c’è giustizia ordinaria che ai nostri occhi possa far dimenticare l’antipatia e la cattiveria di quella bastardona. La seconda furbata è toglierci la possibilità di vederla espiare le sue pene fino in fondo, forse in vista di ulteriori comparsate, mentre John Kramer cade preda di un piccolo errore di calcolo che porta il suo piano verso orizzonti inattesi, pur non facendolo saltare. Sapevatelo, l’Enigmista ha sempre un piano.
Dopo anni e anni, la produzione ha capito che non basta buttare soldi in trappole ai limiti della fantascienza e svelarci l’ennesimo braccio destro che sbuca dal nulla dopo un lavaggio del cervello. Non è importante svelarci cosa viene fatto, quanto riflettere sul perché viene fatto, gettando sul piatto un escamotage apparentemente banale – quello del pensionato che crede ai gomblotti contro la salute pubblica – e declinandolo in un racconto cinico, ambiguo, in perfetto stile Saw: la punizione è davvero esagerata? Chi ha più colpe in questo splatteroso gioco? La sofferenza fisica, scandita da facce arrostite e cervelli asportati, è inquadrata con perizia per intrattenerci, mentre quella interiore è più subdola e ci fa dubitare di noi stessi: a chi possiamo affidarci in una società dove tutti fanno schifo? È sempre stato questo il bestiario umano della saga, un accrocchio caricaturale di individui dove gli innocenti si contano sulle dita di una mano frantumata. Udite udite, questo bizzarro affresco sociale viene sfruttato nel migliore dei modi e ci regala un episodio che, salvi i protagonisti imbolsiti, si scrolla di dosso la maledizione del sequel fuori tempo massimo. Adesso però non chiudete Wanna Marchi nella vostra cantina!