Il ritorno con camera a mano nei boschi di Burkittsville.
di Alessandro Sivieri
Dopo un ventennio è tornato in scena, a sorpresa, il progenitore del genere found footage (se vogliamo escludere Cannibal Holocaust, girato nel 1980 da Ruggero Deodato). Il seguito del film horror di culto ha attraversato il proprio ciclo produttivo sotto il falso nome di The Woods, prima che la Lionsgate ne rivelasse la vera natura. Una mossa intelligente e utile a generare dell’hype, se pensiamo che la strategia di marketing dell’opera originale è figlia del proprio tempo. Studiata con cura e impostata sulle presunte sparizioni del cast, sarebbe poco attuabile nella giungla mediatica contemporanea, dove circolano già troppe fake news. Viene ricordato come un fenomeno che ha sobillato le masse primordiali di Internet, l’alba del virale. Solo Cloverfield di Matt Reeves ha ottenuto risultati comparabili.
Il revival partorito da Adam Wingard e Simon Barrett (regista e sceneggiatore che hanno inanellato qualche successo in sodalizio creativo) si fa strada in un mondo differente, dalla scarsa memoria a breve termine e dominato dalle pellicole serializzate a basso budget. Il panorama è già saturo di fenomeni derivati come i vari Rec, Paranormal Activity, ESP e altre amenità. Il pubblico ha metabolizzato l’horror con camera a mano ed è diventato più esigente. Ciononostante il ritorno alla cittadina di Burkittsville, alle radici del mito della strega di Blair, possiede un carisma in grado di vendere ancora, come un wrestler leggendario che si riaffaccia sul ring, nonostante l’anca d’acciaio e la prostata sforacchiata.
Il primo The Blair Witch Project (qui la recensione per Monster Movie) aveva scatenato le fantasie di appassionati del mistero e ragazzini alle prime armi con il Web. Il seguito riesce a ritagliarsi una fetta di pubblico? A conti fatti, Blair Witch è senz’altro migliore dell’imbarazzante Book of Shadows, ma getta all’aria un sacco di potenziale, riciclando il suo format nel modo più prevedibile. Un remake più che un seguito, una di quelle operazioni degne di J. J. Abrams (che con tutta probabilità avrebbe richiamato i vecchi attori per un cameo).
Il movente di questa nuova scampagnata è la volontà del protagonista James (James Allen McCune) di ritrovare la sorella Heather Donahue, scomparsa nel primo film; il tutto dopo aver assistito a un criptico spezzone su YouTube. Evidentemente secondo il fratellino è plausibile che una ragazza scomparsa da 20 anni perseveri illesa a campeggiare nello stesso posto. Wingard lima le fasi di inchiesta e non esplora ulteriormente la mitologia della strega, saltando le domande agli abitanti Burkittsville. I pochi aneddoti intriganti, peraltro già conosciuti dai fan, vengono raccontati alla veloce da due membri della comitiva, come in un riassuntino per informare i profani.
Millennials a caccia di porcini.
Il nutrito gruppo di escursionisti anonimi si ritrova ben presto smarrito nelle foreste, impaurito dai primi segni di presenze sovrannaturali. La sequela infinita di alberi intricati, animata dal sound design (alla lunga ridondante), non manca di mettere ansia, ma il trip nostalgico è accompagnato da scelte stilistiche infelici: grazie alla tecnologia di oggi abbiamo una moltiplicazione dei punti di vista, con l’ausilio di droni (poco sfruttati a livello registico) e maggior disponibilità di telecamere a spalla.
Nonostante i variegati accorgimenti high tech ci si perde lo stesso come bambini, forse perché consultare il GPS o chiamare aiuti col cellulare è ancora un tabù (a meno che nel bosco stregato non ci sia campo). Il gruppo, più sprovveduto del trio originale, si divide spesso e volentieri, cercando in tutti i modi di mettersi nei guai. Abbiamo un accenno di body horror buttato lì a caso, con radici che proliferano nelle ferite e gettate di pus, a rievocare le piante infestanti di Rovine. Per ogni morte brutale ne troviamo una ridicola. Il primo premio spetta all’illogicità di arrampicarsi su un albero al buio e con una gamba fuori uso. Strega o meno, i ragazzi sono pienamente in grado di farsi del male da soli. Viene approfondito, a tentoni, quel concetto di dilatazione spaziale e temporale che avevamo sperimentato nel predecessore (l’assenza di punti di riferimento e la casa di Rustin Parr).
In The Blair Witch Project la strega non si vede mai e le sparizioni avvengono fuori campo. Un sotterfugio efficace che dissemina di pericoli invisibili la zona di comfort (il raggio d’azione della camera) dello spettatore. Il sequel ricorre invece a una logica da nuovo millennio, inserendo più violenza e nullificando la tensione con i jump scare. Sul fronte visivo viene messa al bando la logica del “vedo non vedo” per darci in pasto una stracciona zombie omicida. Wingard arriva a mostrarci la presunta strega (l’identità della creatura è stata smentita in tono ufficioso nelle interviste), ricorrendo a soluzioni estetiche prese in prestito da Rec.
Selfie con la strega influencer.
Noi aficionados avremmo preferito altri legnetti penzolanti e stranezze occulte ai mostri urlanti, inseriti in un epilogo dove poco abbiamo capito e troppo abbiamo visto, senza quel timore reverenziale per un cattivo senza volto. Gli autori si sono gettati nel bosco, andando alla cieca per raccogliere qualche brivido genuino, consapevoli di girare un rifacimento omologante. Le sequenze valide? Un claustrofobico strisciare dentro i tunnel fangosi o le riprese in notturna tra gli alberi, ma il resto campa bellamente di rendita. Laconico nel mettere a frutto il suo patrimonio folkloristico, sbilanciato in boss battle da videogame, Blair Witch è come un inquisitore paraculo che dà alle fiamme la nostra strega sull’altare della convenzionalità. Aridatece le colate di muco di Heather.
2 commenti Aggiungi il tuo