Ghost in the Shell incontra Avatar e il caos latino di Robert Rodriguez.
di Alessandro Sivieri
Dopo il buco nell’acqua di Ghost in the Shell, la macchina hollywoodiana torna ad adattare una pietra miliare del fumetto nipponico. Parliamo di Battle Angel Alita, manga creato negli anni ’90 da Yukito Kishiro che tratta temi molto cari all’immaginario cyberpunk: futuri post-apocalittici, ingiustizie sociali, la fusione uomo-macchina e il progressivo svuotamento della sfera emotiva in favore di un’esistenza distaccata, dove i rapporti interpersonali vengono schiacciati da realtà simulate e interfacce virtuali. Al timone di Alita troviamo James Cameron, che dopo aver acquisito i diritti del franchise parecchi anni fa, ha rinunciato a dirigere il film in prima persona per passare il testimone a Robert Rodriguez. Il risultato è un’opera visivamente interessante ma confusionaria, che mette in scena le fissazioni dei due registi, in particolare la megalomania di Cameron e il pulp ispanico di Rodriguez.
I rimandi a pellicole e videogame della cultura fantascientifica si sprecano: la metropoli che fa da sfondo agli eventi, divisa tra la periferia bassa di Iron City e la città alta di Zalem, ricorda la Shangai di Deus Ex: Human Revolution, insieme agli ambienti di Elysium tanto cari al regista Neill Blomkamp, dove il progresso tecnologico va di pari passo con il degrado. Al mix si aggiungono i colori accesi e i personaggi sopra le righe di Rodriguez, offrendoci un quartiere dalle architetture latine, popolato da cacciatori di taglie e ladri in cerca di pezzi di ricambio. In una discarica di ferraglia e corpi metallici (con strizzatine d’occhio a Terminator), un Christoph Waltz in versione Geppetto trova i resti di Alita (Rosa Salazar), una ragazza-cyborg che provvederà a rimettere in sesto, sfruttando i componenti un tempo destinati alla figlia defunta. Con i suoi occhioni vivaci e l’ingenuità di un’adolescente, Alita si risveglia in un mondo pieno di pericoli e partirà alla scoperta di nuove esperienze sotto la guida paterna di Waltz, cercando al contempo di far luce sul suo passato e sul mistero che circonda la città alta.
Una protagonista potenzialmente interessante viene presto calata in una storia senza una direzione precisa. Si rimane ugualmente affascinati ed estraniati dai tratti somatici di Alita, che con il suo corpo artificiale e gli occhi innaturalmente grandi trascende ogni concetto di razza. Il suo viso fuori dai canoni è utile a evitare le polemiche sul whitewashing che travolsero Scarlett Johansson e le dà un’aria immatura, perfetta per incarnare una ragazza che, pur avendo 300 anni, sperimenta tutto per la prima volta. I personaggi di contorno non sono adeguatamente sviluppati, a partire dal dott. Ido di Waltz: una volta vestiti i panni del Braccatore (cacciatore di taglie), si dimostra impacciato e sgambetta comicamente per gli scenari con la sua ingombrante falce. Rodriguez coordina delle buone scene d’azione e spinge a mille sulle stravaganze, a partire dalla rissa nel Kansas Bar, che con i suoi avventori grotteschi richiama Dal tramonto all’alba. Tramite dei flashback ci viene raccontata una grande guerra del passato, in seguito alla quale solo la città di Zalem rimase in piedi. Grazie all’esplorazione di un relitto alieno in stile Man of Steel apprendiamo che Alita ebbe un ruolo chiave nel conflitto, mostrato saltuariamente con il piglio di un Cameron post-Avatar.
In un’ottica da primo capitolo di una saga, molte domande sul passato rimangono irrisolte e non abbiamo modo di osservare nel dettaglio la città alta. Mentre alcuni comprimari scompaiono bruscamente, il film sembra volersi perdere in inseguimenti senza fine e sequenze sportive ad alto tasso andrenalinico ma prive di qualsivoglia regola, quasi fossero una versione caciarona di Rollerball. Se è apprezzabile l’ambiguità morale di personaggi come Jennifer Connelly, i villain veri e propri rimangono passivamente sullo sfondo, trincerandosi dietro a un’aura di mastermind intoccabile. Le loro motivazioni non sono mai chiare, se escludiamo la necessità di tenere a bada il popolino grazie al Panem et circenses e condurre sinistri esperimenti con i corpi di quei “fortunati” arrampicatori sociali che giungono a Zalem. Lo stesso sviluppo psicologico di Alita, che deve formare da zero la propria moralità, viene azzoppato da una narrazione che la vuole troppo multitasking, facendola oscillare tra la campionessa sportiva, la cacciatrice di taglie, la guerriera prescelta e l’adolescente innamorata. Sia chiaro, il sottoscritto non ha esperienza del manga originale e non vuole esprimere giudizi sulla fedeltà al racconto, ma un film ha modi e tempi narrativi diversi, e qui si sente la mancanza di una scrittura coerente.
Fortunatamente l’intrattenimento abbonda e Rodriguez è lontano dalle crisi di infantilismo di Spy Kids, ma in un periodo saturo di kolossal futuristici non bastano un paio di occhioni e un character design azzeccato a dare una ventata di freschezza. L’impressione è quella di un prodotto fuori tempo massimo, un’idea abbozzata da Cameron per lustri e poi delegata a un altro nome di grido per non sprecare i diritti. A quanto pare la visione del produttore e quella del regista non sono giunte a una sintesi equilibrata, smarrendosi in un universo che con qualche limatura poteva acquisire più mordente. Perfino la riflessione su cosa ci rende umani, fonte di dilemmi esistenziali, viene prontamente messa da parte per risalire su un ottovolante di Tecnarchie Marziane, Panzer Kunst e Lame di Damasco, terminologie degne di un fantasy poliglotta. È proprio ora che gli studios si accorgano a proprie spese che la tecnologia non è tutto, un po’ come accade ai protagonisti.
Se volete saperne di più, ecco le nostre impressioni a caldo dopo la visione in una diretta su Facebook:
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