Recensione dell’ultimo film di mostri animato in stop motion dallo studio Laika.
di Matteo Berta
Vincitore del Golden Globe come miglior film d’animazione e candidato nella stessa categoria agli Academy Awards, Missing Link si presenta come nuovo gioiello dello studio Laika, unica e vera casa di produzione rivale degli Aardman Studios per quanto riguarda l’animazione a passo uno.
Questo film parla di come la diversità possa essere un problema quando mina l’ordine delle cose. In questa pellicola si percepisce conservatorismo che trascende la specie di appartenenza e questa xenofobia viene espressa in un modo molto intelligente: ovvero attraverso i mostri. Il protagonista della storia è il signor Frost, che in tutti i modi vuole essere accettato all’interno della comunità degli esploratori, ma puntualmente viene lasciato ai margini, solamente perché la sua visione del mondo racchiude all’interno più ignoto di quanto i suoi colleghi si sentano di considerare.
Sir Lionel Frost è indubbiamente un personaggione, anche quando rischia di mischiarsi con la personalità del Greatest Showman, perché spesso Hugh Jackman in questo film, dice molte cose simili e nello stesso modo del suo precedente personaggio P.T.Barnum. Era abbastanza inevitabile che in Monster Movie lo apprezzassimo, dal momento che si tratta di un cacciatore (meglio dire esploratore) di mostri che vive praticamente in una wunderkammer, ma Lionel non campa di rendita nella sua premessa, il suo arco psicologico è scritto perfettamente e le piccolezze della sua personalità lo rendono unico. Un Phileas Fogg mostrifero.
Il titolo del film è perfetto per rappresentare nel migliore dei modi il grande messaggio della storia: ovvero che l’anello mancante può unire sotto lo stessa specie, ma nello stesso tempo può accomunare dal punto di vista delle problematiche. Questo concetto viene incarnato nel personaggio di Mr.Link, che si trova ad essere fuori contesto in ogni dove, ma che nello stesso tempo non rinuncia a sentirsi a casa in ambienti “socialmente” meno indicati.
Il film inizia alla grande, ma perde mordente in alcune parti del secondo atto, per poi riprendersi forte per il finale. La musica di Carter Burwell è una piacevole sorpresa, descrive perfettamente le varie sequenze del film e si rende protagonista con un temone principale molto azzeccato. L’unico problema risiede nel tema b del film (Miyth Made Real): non ditemi che non vi ricorda (sempre di Carter) Bella’s Lullaby da Twilight.
Il Big Foot è stato rappresentato in molte versioni sul grande schermo, ma mai come questa. Il regista Chris Butler ci racconta della mostruosità in modo delicato e sta attento a non offenderla nel farlo. Il mostro che ci viene raccontato non è diverso da noi è il perfetto collegamento tra man and beast. La pellicola può essere vista in diversi modi: potrebbe apparire come una storia d’amicizia, come un road movie o semplicemente un’avventura vecchio stile, ma il tutto converge in sentimenti comuni: non importa il genere quando empatizziamo con il capro espiatorio, non occorre schierarsi quando non c’è nulla da combattere.
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