Il war movie spaziale di James Cameron che aggiunge personaggi ed espande gli orizzonti.
di Alessandro Sivieri
Vengono fuori dalle fottute pareti!
Siamo negli anni ’80 dell’action smodato. Sono passati sette anni dal claustrofobico Alien di Ridley Scott, quello che a parere del sottoscritto rimane il miglior fanta-horror mai concepito. Con l’intento di dare un degno seguito alle vicissitudini dello Xenomorfo arriva un altro grande talento, ovvero un giovane James Cameron, ancora reduce dal successo di Terminator. Il regista canadese non si era ancora auto-esiliato in cabina di produzione e nei progetti a gestazione decennale, ma stava costruendo la propria fama nel campo degli effetti speciali pioneristici e negli sci-fi ad alto tasso spettacolare. In breve, erano i cari bei vecchi tempi in cui c’erano le idee, idee che venivano sbattute a valanga sul tavolo e quasi sempre concretizzate. Invece di riproporre le atmosfere della Nostromo, il saggio Cameron moltiplicò gli scenari, mise insieme un cast più ampio del precedente e optò per una virata stilistica, pur mantenendo il gore e la tensione. Il risultato è una pellicola a sfondo bellico, un’odissea testosteronica che rispecchia il suo zeitgeist, spaccona quando le è permesso e terrorizzante quando serve. Il punto focale rimane una Sigourney Weaver in continua evoluzione psicologica e simbolica.
Dopo gli eventi del primo film, Ellen Ripley è rimasta in ipersonno per 57 anni su una capsula di salvataggio, prima di essere trovata e tratta in salvo. Dopo una riabilitazione non priva di incubi, la donna vorrebbe ricostruirsi una vita ed elaborare i propri lutti, ma la Weyland-Yutani, la compagnia senza scrupoli che aleggia crudelmente nel franchise, è determinata a rispedirla come consulente su LV-426, il pianeta dove si verificò l’incontro con il letale Xenomorfo. Il luogo è stato terraformato anni prima da centinaia di coloni, con i quali si sono persi i contatti. Sebbene i dirigenti aziendali la ritengano una bugiarda, Ripley viene reputata indispensabile e viene affiancata a una squadra di marines coloniali armati fino ai denti. Il gruppo parte alla volta della colonia Hadley’s Hope e nessuno, a parte Ripley stessa, ha idea di ciò che li attende nel buio. L’esplorazione degli ambienti desolati lascia presto spazio al caos e alle fughe concitate, mentre i soldati cercano con ogni mezzo di sopravvivere a un intero esercito di Xenomorfi.

La carta vincente di Cameron risiede in una formazione di comprimari ben caratterizzati. Ad affiancare l’eroina principale troviamo il taciturno Hicks di Michael Biehn, la tostissima Vasquez di Jenette Goldstein (che si ispanizza con maestria) e lo spassoso Hudson di Bill Paxton (l’attore compare anche in Terminator e in Predator 2). Menzione speciale per il sergente Apone di Al Matthews, un autentico veterano del Vietnam che alterna gli ordini alle lavate di capo con mirabile naturalezza. Per quanto stereotipato, ogni personaggio ha una psicologia definita e fedelmente trasposta nel comparto costumistico e gestuale.
Il lato innocente è incarnato dalla Newt di Carrie Henn, orfana sopravvissuta con la quale Ripley instaurerà un legame materno. La piccola venne scelta dal regista in mezzo a decine di altri bambini attori, troppo abituati a sorridere davanti alle telecamere per gli spot pubblicitari. Il ruolo prevedeva un’esile ragazzina traumatizzata e Cameron decise che quella taciturna figlia di un ufficiale della U.S. Air Force faceva al caso suo. Altro asso nella manica sono le scenografie: Cameron forgia un mondo complesso dove sono le ambientazioni a raccontare una storia. Corridoi deserti, porte sfondate e alveari viscosi ci suggeriscono che qualcosa di terribile è accaduto, e che cose ancor più terribili accadranno presto.
Un mondo complesso dove sono le stesse ambientazioni a raccontare una storia.
Le innovazioni, che rimarranno iconiche nella saga, denotano una cura certosina del production design: grazie a giocattoli e videogame rivivono ancora oggi i fucili a impulsi, i rilevatori di movimento, l’astronave Sulaco e perfino un carrello elevatore bipede. Le attrezzature di contorno, spesso rappresentative di una tecnologia futuristica e al contempo decadente, hanno un peso equamente distribuito nel corso degli eventi. Gli effetti sonori, le frasi badass e le musiche di James Horner completano un arsenale che ci bombarda di momenti memorabili. La famiglia allargata di alieni, spesso presentati in massa e spappolati dai proiettili, vede il parziale scostamento dell’estetica dell’invisibile di Scott, il quale preferiva suggerire il pericolo piuttosto che mostrarlo. Ci si concentra sulla sperimentazione tecnica, azione di pregevole fattura e la costante ansia di uno scontro impari, dove le armi tecnologiche servono a poco di fronte ai predatori affamati.
In questa trincea orrorifica non vengono trascurati i rapporti umani ed ecco che il trio Ripley-Newt-Hicks dà vita a una sorta di famiglia surrogata con l’arduo compito di portare a casa la pelle. Lo showdown finale tra la protagonista e l’imponente Regina aliena (maggiori informazioni nel Bestiario) simboleggia uno scontro matriarcale, tra donne forti, dove due specie tentano di assicurare un futuro alla propria progenie. Anche in questo caso a dominare è l’artigianalità, che valse alla pellicola l’Oscar per gli Effetti Speciali nel 1987. Perfino il sommo H. R. Giger si disse contento della Regina, mai apparsa nei bozzetti dell’artista svizzero.

A decenni di distanza Aliens: Scontro finale rimane tranquillamente in piedi, conquistando il podio di quei sequel che non sono rimasti adagiati sull’eredità dell’originale e hanno generato una propria mitologia. Si sacrifica un po’ di introspezione per dare spazio al ritmo, ma soprattutto si approfondisce il ciclo vitale delle creature senza intaccarne il fascino oscuro. Sigourney Weaver si militarizza e oscilla con grazie tra la fragilità di una superstite e la necessità di una rivalsa morale e affettiva. Sullo sfondo la sete di denaro della Compagnia, disposta a sacrificare qualunque pedina pur di trasformare le minacce aliene in profitto. Anche il progresso scientifico viene messo sotto scacco, dimostrandosi inutile di fronte a un nemico che opera come una mente collettiva e che ha un DNA più letale di ogni genere di pistola o lanciagranate progettabile da un essere umano. Con una masnada di Xenomorfi alle calcagna, rimane una sola opzione: decolliamo e nuclearizziamo.
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