Found footage imputridito in una piramide di tre lati.
di Alessandro Sivieri
La patria dei faraoni ha un fascino immortale: luoghi come la piramide di Cheope, la Valle dei Re e il tempio di Abu Simbel erano già antichi all’epoca del massimo splendore dell’Impero romano. Le divinità di foggia animalesca, le pitture rupestri, le mummie e i tesori segreti delle necropoli costituiscono una frazione assai redditizia della cultura cinematografica e videoludica. Non è un caso che uno dei più famosi eroi su pellicola, il mitico Indiana Jones, faccia l’archeologo. Dev’essere eccitante vagare per le lande desertiche dell’Egitto e addentrarsi in una tomba abbandonata da migliaia di anni, colma di meraviglie e di trappole. Un cocktail che funziona anche in salsa orrorifica, a partire da La mummia. Ecco che nel 2014 emerge un’idea geniale: una piramide maledetta con tre lati. Capito? Tre lati al posto di quattro. Vecchissima, priva di riscontri storici e sepolta sotto tonnellate di sabbia (un po’ come la suspense dopo la prima mezz’ora).
Questo found footage, passato in sordina, è diretto da Grégory Levasseur, che qui debutta come regista, e prodotto da Alexandre Aja. I due hanno sceneggiato insieme Alta tensione e il remake de Le colline hanno gli occhi, girati dallo stesso Aja. Non parliamo di una coppia di sprovveduti che una mattina si alzano e decidono di fare un horror tombarolo, con tanto di budget da 6,5 milioni di dollari. Siamo dunque nei pressi del Cairo, durante una sommossa popolare. Una équipe di documentaristi raggiunge a fatica degli studiosi che hanno rinvenuto un tempio ben più vetusto di quelli di Giza. Gli archeologi sono un padre protettivo (Denis O’Hare) e la figlia rompipalle (Ashley Hinshaw), incline a battibeccare come un’adolescente con lo smartphone sotto sequestro.
I predatori del copione perduto.
Il loro interlocutore principale è la cronista Sunni (Christa Nicola), incapace di fingersi terrorizzata o rabbiosa perfino sotto tortura. La paresi facciale colpisce gran parte del cast, ma in fondo non stiamo mettendo in scena l’Enrico V. Il loro autentico scopo è farsi del male il prima possibile, fratturarsi gli arti, infilzarsi su un palo e riempirsi di putredine. Torniamo ai fatti: affiora un ingresso nella struttura, che si rivela colma di aria malsana e di soffitti traballanti. Viene inviato al suo interno un drone targato NASA, facilmente più costoso dell’intera spedizione. Delle creature non identificate lo aggrediscono e i personaggi decidono saggiamente di entrare per recuperarlo. Indossate le maschere antigas e fate il pieno di ignoranza, è il momento di molestare qualche entità millenaria dormiente.
I potenti mezzi usati per scopi nobili.
Il film è di base un mockumentary, ma non aspettatevi un lavoro radicale alla Blair Witch. Si adotta un approccio a tecnica mista, dove accanto al point of view della camera troviamo inserti più classici. Riprese aeree e inquadrature panoramiche sono perlopiù asservite alla descrizione di ambienti. Il montaggio si dimostra efficace nel raccordare due formule in potenziale conflitto: anche in fondo a stanze buie e cunicoli polverosi, l’occhio onnisciente non rivela input visivi cruciali per la trama e si limita a contestualizzare meglio gli spazi angusti in cui si muove il cast. La claustrofobia però evapora in fretta.
Il drone cingolato sarebbe un ottimo escamotage per avere più varietà in soggettiva, ma va incontro a una fine prematura, giusto il tempo di fare una capatina nella tenda della Hinshaw a fini voyeuristici. Sul fronte scenografico c’è tutto quello che ci fa pensare “Egitto”, dai geroglifici alle statue esotiche. In una strana piramide a tre lati. TRE LATI, ok? Dev’esserci per forza qualcosa di losco.
“Tradurre è palloso, facciamo le ombre cinesi!”
Ci si accorge presto che forze oscure sono all’opera: il gruppo si perde e percorre la medesima strada diverse volte, senza neanche sfruttare le registrazioni per orientarsi. L’emotività è atrofizzata per via dei dialoghi scadenti ma in compenso brilla l’arte del mettersi nei guai. Se le vittime non si spingono da sole in una trappola, ci pensano dei gattacci zombie che scorrazzano nei tunnel. La mitologia egizia viene rielaborata per fornire un villain, quindi ecco comparire Anubi in persona, incazzato come un muratore e con l’aspetto da randagio schifoso con la rogna. La piramide trilaterale diventa così l’incubo della protezione animali.
L’unico a essere più cane degli attori.
Il guardiano dell’aldilà ha invero un bel design e la sua CGI non è da buttar via. Lontano dalle rappresentazioni solenni e idealizzate, evoca un senso di repulsione e viene inserito in un paio di scene dal forte impatto; in una di queste si ritrova faccia a faccia con la protagonista, rievocando la saga di Alien. In generale viene mostrato troppo e spogliato della sua aura di mistero. La backstory appena abbozzata non gli dona nemmeno quella profondità che avrebbe arginato la scarsità di terrore. Anubi vuole trasferirsi da papy Osiride, e per riuscirci deve strappare cuori come Mola Ram finché non trova quello giusto. Le sue facoltà magiche non hanno un confine delineato e non è chiaro perché rimanga a bivaccare tutto il tempo, quando ci sono delle comode scalette da intruso piazzate nell’edificio. Ogni tanto bisticcia con i gatti zombie, forse per questioni di territorio. Un mostro valido rinchiuso nella fiera dell’usato.
“Cuccia bello, cuccia…”
L’esplorazione sotterranea ha portato frutti di esiguo valore: The Pyramid è prevedibile, scialbo e con i riflettori puntati su un villain che, per quanto figo, non può ergersi ad alibi per le lacune creative. L’egittologia trasuda cliché e tira in ballo pure i gas tossici, che per fortuna non trasformano i malcapitati in zombie, ma si limitano a divorargli la carne con piaghe che Cabin Fever spostati proprio. In lingua originale viene esposta senza filtri la recitazione carente, con l’eccezione di un O’Hare che in fin dei conti porta a casa la giornata. Il resto consiste in corse avanti e indietro, scale a pioli e cadute accidentali. L’attenzione dello spettatore taglia il traguardo ormai mummificata. Complimenti, cari lettori, siete arrivati alla fine e avete diritto a una sessione omaggio di pet therapy.