JACK IN THE BOX – Pagliacciate in scatola

Gita pomeridiana in un museo clownesco a basso budget.

di Alessandro Sivieri

È una serata uggiosa, che ne dite di frugare in mezzo ai balocchi imbruttiti? Il giovane americano Casey (Ethan Taylor) si trasferisce in Gran Bretagna dopo un trauma e trova lavoro come curatore di un museo. Dorme poche ore per notte, prende le pillole scordandosi il bicchiere d’acqua e si ritrova a fare l’inventario del magazzino. In mezzo ai reperti polverosi scopre una sinistra scatola a manovella, decorata con simbologie arcane. Questo giocattolo, risalente a secoli prima, nasconde uno di quei pagliacci a molla che spuntano fuori quando meno te lo aspetti. Il suddetto feticcio è in realtà un demone, imprigionato nel limbo del marchingegno, che negli orari di chiusura assume fattezze mostruose e si aggira per l’edificio divorando gli inservienti.

Jack in the Box clown malefico

Il regista gallese Lawrence Fowler confeziona uno di quegli horror a basso budget dove puoi intuire in due occhiate le quote di spesa: un po’ di grana per affittare un edificio spoglio a due piani, la CGI abbozzata e uno sforzo evidente nel make-up, mentre la Fiat Punto guidata dal protagonista appartiene di sicuro alla troupe. Le comparse spaesate incutono quasi più timore del clown infernale, tipica evocazione alla Pennywise delle nostre fobie. La faccia si pone a metà tra gli orchi del Signore degli Anelli e le maschere in lattice dei burloni che si filmano per YouTube; le mani ricordano i guanti dell’autolavaggio con dei grossi artigli; la mimica pesca a piene mani da opere nipponiche come The Grudge.

Pupazzo a molla Jack in the Box

Un cattivo nato male e sfruttato anche peggio. Le movenze serpeggianti del performer Robert Nairne, celato sotto un ammasso di lattice e setole, non convincono appieno e fanno assomigliare il malefico Jack a un circense ubriaco che sbatte le porte. Il mostro prolunga la propria esistenza trascinando le vittime nella scatola e cibandosene, ma non si capisce perché a un certo punto si metta direttamente a tritarle in corridoio. Casey, preso dai sensi di colpa, scorrazza per le campagne in cerca di risposte, battibeccando con contadini vedovi e demonologi che hanno finito i biscotti. Lo scontro finale prevede un rituale in latino dal sapore parodistico.

Jack in the Box mostro intero

La ridondanza degli ambienti e le leggerezze scritturali non trovano alcuna redenzione nel ritmo, dimenticato in cantina, o in un tappeto sonoro che lascia indifferenti: vi verrà quasi da ridere ad ascoltare il chiasso dei personaggi che camminano sul parquet. Le cantilene infantili con carillon lasciamole a Profondo rosso. Novanta minuti nel museo più spoglio del pianeta (roba da entrarci solo se fuori piove) bastano a levarsi dalle scatole l’ennesimo spauracchio infantile, che azzarda un moto di cinismo nel finale, ma si scorda di ingolosirci dal principio. Il male ha molte forme. Questa volta era un pupazzo a molla che ha decimato un paesino di circa dodici abitanti (galline incluse) prima di essere sepolto a mezzo metro di profondità in un campo di rape.

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