Un classico dell’infanzia riprende vita in un minestrone di anatemi, roditori ingordi e megere affette da calvizie.
di Alessandro Sivieri
“Le streghe non sono delle donne, sono demoni in forma umana!”
Tremate, tremate, Robert Zemeckis è tornato e ha deciso di pescare a piene mani dall’immaginario di Roal Dahl. Le streghe era già arrivato in sala nel 1990 con Chi ha paura delle streghe?, firmato da Nicolas Roeg. In questa prima versione il ruolo di Strega Suprema fu assegnato ad Anjelica Huston, che subito dopo presterà il volto alla bella Morticia nel dittico de La famiglia Addams di Barry Sonnenfeld. Il ruolo della villain viene ereditato da Anne Hathaway, che punta sulla forza dei suoi tratti somatici e su una presenza magnetica. Il divario estetico tra le due attrici è lo specchio delle licenze poetiche che entrambi i film si sono presi sul romanzo: la Huston fa un ampio uso del trucco prostetico per dare vita a una maschera ributtante, la Hathaway si concentra sulla teatralità e riceve qualche aiutino dagli effetti visivi. Entrambe sono squisitamente mostruose, ma con soluzioni formali differenti.

Ahinoi, l’impalcatura che in teoria regge la Strega Suprema non è altrettanto memorabile. Si adagia anzi sulle sue spalle, sulla sua aura di perfidia e sul suo accento nordico enfatizzato. Sebbene le tappe del racconto siano tutto sommato fedeli, la location si sposta dalla Gran Bretagna degli anni ’80 agli Stati Uniti degli anni ’60, precisamente in Alabama. Jahzir Kadeem Bruno è un ragazzino di colore che ha perso i genitori in un incidente automobilistico e viene dato in affidamento alla nonna (il Premio Oscar Octavia Spencer). Quest’ultima, oltre a riesumare il suo entusiasmo di vivere, si rivela una sorta di guaritrice e lo mette in guardia dalle streghe, insegnandogli i metodi per riconoscerle. L’obiettivo di queste megere è infatti liberare il mondo dai bambini, che trovano disgustosi. Uno dei loro metodi preferiti è trasformarli in bestie come topi e galline.
Octavia Spencer è un ottimo contraltare alla Hathaway ed è una nonna stramba che unisce gustose ricette a nozioni di magia voodoo e musica soul, senza scordare le lezioncine sul rispetto e sull’affrontare le insidie della vita senza scoraggiarsi. Il setting americano, negli anni bui della segregazione razziale, arricchisce il contesto socio-politico in cui si muovono la Spencer e il nipote, incluso il lussuoso hotel dove affittano una suite per sfuggire alle streghe; una struttura dove le persone di colore entrano solo come servitù. La fotografia calda e le ricche scenografie vintage ci fanno pensare per un attimo al Grand Budapest Hotel targato Wes Anderson, sostituendo il concierge di Ralph Fiennes con l’ossequioso direttore di Stanley Tucci.
Il protagonista paga cara la propria curiosità e viene trasformato in topo. Senza abbattersi per questa condizione in apparenza irreversibile, fa squadra con un’altra ragazza che ha subito la medesima sorte e con l’ingordo e viziato Bruno Jenkins (Codie-Lei Eastick), il quale non riesce proprio a stare lontano dal cibo, ficcando tutto il trio nei guai. Le scampagnate dei ragazzi-roditori per l’albergo e in particolare nelle cucine (per alterare una zuppa di piselli) fanno pensare a un Ratatouille con guarnizione favolesca. Restando in tema di abbuffate, torniamo al piatto forte, ovvero l’allegra banda della Hathaway.
La Strega Suprema ha poteri oltre ogni immaginazione e comanda una congrega di odiatrici professionali di mocciosi. La sedicente Associazione per la protezione dell’infanzia, per la sfortuna di nonna e nipote, ha affittato metà dell’hotel e cela un gruppo di streghe provenienti da tutto il mondo. Le signorine vestite alla moda, facilmente scambiabili per un circolo di bridge, si rivelano orride creature con la testa glabra, mani artigliate, fauci da squalo e piedi privi di dita. Queste streghe altolocate, che aggrediscono “soltanto i poveracci e gli ignoranti”, divengono il simulacro grottesco dei suprematisti bianchi, riuniti a gozzovigliare in una gigantesca “casa coloniale” dove la rivalsa sociale parte da un orfano topizzato.
Se la messa in scena risulta fiacca e priva di quel pizzico di magia esigibile, la regia non si fa problemi a sottolineare la mostruosità delle villain, indugiando sui primi piani di vermi e pustole. Anne Hathaway è saldamente al centro del palcoscenico e lavora con la dizione e la gestualità enfatica per regalarci una personalità sopra le righe, se non macchiettistica. Un po’ come se le cattive di casa Disney si fossero fuse in una perfida nemesi femminile, con un’alta concentrazione di Crudelia De Mon.
Basta un po’ di sane arti oscure a tenere in piedi la baracca? Mica tanto. Due nomi come Zemeckis alla regia e Guillermo Del Toro alla scrittura falliscono nel dare un’identità a un prodotto che campa sul proprio nome, su delle prove attoriali convincenti e su un’effettistica digitale non all’altezza (specie quando entrano in gioco gatti e serpenti). Il target di età vola evidentemente basso, ma i passaggi narrativi rischiano di deludere i bambini di oggi, più difficili da sorprendere rispetto ai decenni scorsi. Non ci si aspettava un cinismo macabro come ne La morte ti fa bella, un vecchio gioiello dello stesso Zemeckis, ma nemmeno questa risciacquatura dell’ultimo Tim Burton, dove gli orpelli visivi tentano di coprire un intreccio monodimensionale. Streghe o non streghe, per la noia non esiste un controincantesimo.
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