L’eredità di uno degli horror meglio riusciti dell’ultimo decennio.
di Alessandro Sivieri
Grazie a nuove leve, l’horror rimane uno dei generi più chiacchierati e sfaccettati, diversificandosi in produzioni che vanno dal compitino per ingrassare il catalogo di qualche piattaforma on demand fino a opere raffinate, capaci di farsi ricordare per anni. Accanto a i vari Jordan Peele e Robert Eggers giunge Ari Aster, che con un paio di pellicole all’attivo (qui parliamo di Midsommar) è riuscito a crearsi uno stile solido e riconoscibile, con il supporto della ben nota A24 Films. La dimensione ritualistica, i rimandi sovrannaturali e i fenomeni inspiegabili diventano la distorsione di problematiche ben più terrene: in Midsommar era la crisi di coppia, mentre in questo Hereditary – Le radici del male è il lutto privo di sfogo, il dramma famigliare. Ci viene spiegato che l’incomunicabilità tra congiunti è più infernale di qualsiasi demone o congrega di svalvolati.
L’occhio asteriano (sì, è già il caso di coniare il termine “asteriano“) disseziona attentamente una famiglia dello Utah, sconvolta dalla recente perdita della propria matriarca, una donna dal passato nebuloso e pieno di segreti. Annie Graham (Toni Collette), la figlia, non aveva un rapporto sincero con la defunta Ellen e si ritrova suo malgrado a prendere le redini della casa, essendo quella col carattere più deciso. Ha inizio una lenta discesa nella tragedia, scandita da visioni inquietanti e continui scontri con gli altri inquilini di casa Graham.
Il marito Steve (Gabriel Byrne) è un uomo abitudinario che mette in primo piano la tranquillità domestica; il primogenito di Annie, Peter (Alex Wolff), non si è mai sentito amato dalla madre ed è un tipico liceale che non sa cosa fare della propria vita; la secondogenita Charlie (Milly Shapiro), è una tredicenne solitaria che scarabocchia in modo ossessivo su un taccuino. Era proprio lei la prediletta di Ellen e sembra in grado di percepire cose che agli altri sfuggono. Come farà nel suo film successivo, il regista attribuisce una conoscenza superiore agli emarginati, a chi è affetto da anomalie genetiche (in questo caso la displasia cleidocranica della giovane attrice).
Entrambi i figli hanno un ruolo chiave nella storia, in particolare Peter, ma il focus emotivo rimane su Annie e sul suo senso di inadeguatezza. Nel suo albero genealogico la malattia mentale è una costante e la donna si sente schiacciata dalle aspettative altrui, inclusa la maternità, vissuta come un peso per via delle manipolazioni di Ellen. Di mestiere fa la modellista, e tutti i plastici e le miniature che crea vengono letti dalla camera come un set dentro il set. A livello più o meno conscio, Annie progetta scene truculente e situazioni del suo vissuto; un ennesimo collegamento con Midsommar, dove i ritratti mitologici e le decorazioni architettoniche avevano una funzione anticipatoria.
Le crisi isteriche di Annie e le disfunzioni affettive vanno peggiorando, rendendo insanabile il divario tra i membri della famiglia. Sembra quasi che delle forze occulte siano all’opera, sorvegliando i Graham, come se Ellen non fosse realmente morta e debba portare a compimento il suo grande disegno. Il pacing è dilatato, riflessivo, cosa che può spiazzare chi è abituato al montaggio convulso che adottano, per esempio, gli slasher contemporanei. Vengono messi da parte i jump scare per imbastire un senso di perenne oppressione, dove a spaventare sono i sottotesti esoterici, gli attacchi di sonnambulismo e il silenzio di chi cova per anni il risentimento. Almeno fino a quando non lo libera, come fa Annie durante una cena, inondando i suoi cari di sensi di colpa e di confessioni a bruciapelo.
In fondo la vita, inclusi gli eventi nefasti, è una catena di responsabilità condivise, ma l’ingranaggio si inceppa quando gli altri evitano di assumersi le proprie e ci lasciano soli di fronte alle avversità, come un agnello sacrificale: Annie si sobbarca il dolore collettivo, Peter è un vulnerabile predestinato (come gli eroi privi di libero arbitrio nelle tragedie greche) e la piccola Charlie è stata “ceduta” alla nonna Ellen in nome del quieto vivere. Ecco che lo status di genitore e figlio non è più un porto sicuro ma una presa di coscienza macabra, l’ammissione di un malessere che viene trasmesso, appunto, per via ereditaria. I mostri generano mostri ed è un circolo vizioso.
Il monologo a tavola di Toni Collette ne dimostra le capacità fuori scala ed è l’emblema di quel climax alternativo inseguito da Hereditary: non l’esplosione di violenza, che fa il suo ingresso nell’ultimo atto, ma il disagio psicologico e la disperazione lacerante. Le delusioni esistenziali portano certe persone a credersi una pedina nelle mani di entità misteriose e incontrastabili, infatti la seconda parte prende una piega da folk horror, territorio in cui Aster si è specializzato. Quelle che sembrano solo delle bizzarre coincidenze si rivelano opera di una setta dalle credenze arcane, spaventose.
Nella profonda provincia americana il tempo pare essersi fermato e non c’è modernità che tenga di fronte a un culto che non risponde alle leggi della natura e alle norme sociali, influenzando la nostra vita senza lasciarci scampo. Sul fronte dell’estetica, le sontuose carrellate si amalgamano a una fotografia fredda e tagliente, capace di mostrare i muscoli anche nei momenti splatter, tutt’altro che banali. Le scenografie denotano una cura maniacale dei dettagli, i quali costituiscono indizi sul passato, presente e futuro dei personaggi, sia che si tratti di una casa delle bambole (una matrioska metanarrativa, un trauma ricostruito e rivissuto in scala) o di uno scatolone pieno di cianfrusaglie.
Nel DNA di questo film convivono, a pari merito, il sovrannaturale e il family drama. Un elemento fa da pretesto per l’altro fin quando le parti si invertono, dandoci l’occasione di entrare nello spaesamento intimo dei Graham e di avere, al contempo, un punto di vista privilegiato, o meglio la possibilità di sbirciare da una porta socchiusa per intuire che dietro ai loro tormenti c’è qualcosa di disumano. Ironia della sorte, l’unico modo di razionalizzare gli eventi è la fede, pur se diabolica, nella sfera dell’irrazionale.
C’è chi non si rassegna al trapasso di una persona amata e tenta ingenuamente la strada della seduta spiritica, piuttosto che frequentare gruppi di sostegno o vedere un dottore. Peccato che il senso di vuoto si aggravi, specie se qualcuno si approfitta delle nostre condizioni. La medesima soluzione viene fornita sia ad Annie che allo spettatore: la psicanalisi è insufficiente a trovare la strada in un dedalo di negatività interiorizzata e perciò il male si fa carne, diventa materiale. A quel punto, secondo i nostri canoni, è identificabile, ha un volto e perfino un nome, ma non per questo fa meno paura. Ave, Paimon.
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