C’era una volta Sarah Connor in Messico…
di Alessandro Sivieri
“I’ll be back. Again. And again. And again…”
Dopo i due gloriosi capitoli di James Cameron, la saga di Terminator ha cercato a più riprese di tornare ai fasti di un tempo, se non di avviare una trilogia nuova di zecca. In quasi un trentennio siamo giunti al colpo di coda di un franchise allo sbando, dove ogni tappa ha avuto i suoi grossi difetti, ma anche dei pregi: Le macchine ribelli, in sostanza una copia carbone de Il giorno del giudizio, ci lascia un folle inseguimento con una gru e la “carrozzeria” di Kristanna Loken; Salvation ha messo al centro il futuro da incubo accennato nei film precedenti, raccontando lo scontro tra gli umani e Skynet.
Genysis aveva dalla sua qualche trovata narrativa piacevole, ma si è adagiato su uno svolgimento confusionario con attori non all’altezza. Pellicole che divertono pur rimanendo inferiori al livello qualitativo del capostipite. Eppure, cocciuti come un cyborg di 300 chili, i cervelloni di Hollywood ci riprovano, ancora e ancora. Non bastava il ritorno di Cameron in produzione e un regista sulla cresta dell’onda come Tim Miller (autore di Deadpool e Love, Death & Robots) a cancellare – anzi, a terminare – il mortale nemico del fan spossato: il pregiudizio.
Il ricordo delle iterazioni insoddisfacenti ha accompagnato in sala il sottoscritto insieme agli spettatori di lunga data, unito alla curiosità dei più giovani, che non hanno mai preso in mano una VHS. Un letterale Destino oscuro aleggiava su questo episodio, il timore di ennesimi pasticci temporali, gitarelle messicane dell’INPS di Linda Hamilton e un girl power fine a se stesso. Sorpresa delle sorprese, ecco un film godibile e dal ritmo solido come una roccia, forse il miglior seguito dell’inarrivabile dittico. L’incipit parte col botto e sovverte le nostre aspettative, come se uno spiritato Rian Johnson si fosse impossessato dello script: viene citato direttamente Il giorno del giudizio e mandato a quel paese un attimo dopo.
Una scelta anticlimatica che lascerà l’amaro in bocca fa subito spazio a nuovi visitatori dal futuro. Trattasi del Rev-9 (Gabriel Luna), modello all’avanguardia di killer robotico, e di Grace (Mackenzie Davis), combattente di una resistenza umana che si oppone a Legion, intelligenza artificiale che rimpiazza Skynet in questa timeline. L’obiettivo, a seconda dei casi, è uccidere o salvare la giovane Danielle Ramos (Natalia Reyes), ragazza latinoamericana che avrà un importante ruolo nella guerra. Viene spesa una manciata di minuti per presentare una famiglia felice in un Messico disagiato (anche se non ai livelli dell’ultimo Rambo), lacerata in un paio di minuti dalla furia omicida del Terminator. Da qui in poi la pellicola non si perde in futili divagazioni e ci offre due ore di mazzate, fughe disperate e veicoli che esplodono.
Il trio centrale di tipe toste è ben amalgamato e ci consente – cosa non scontata – di provare una certa apprensione per il benessere delle protagoniste. Dani, travolta dagli eventi, si ritrova a dover crescere in fretta, imparando a metabolizzare il dolore e a credere nelle sue capacità. La Grace di Mackenzie Davis, dai tratti spiccatamente androgini, aveva solleticato l’ironia del Web in fase promozionale, al punto da farsi battezzare “LGBT-1000“. L’estetica apparentemente poco femminile si rivela funzionale al percorso di una donna che ha perso l’infanzia per strada e che si è trasformata in un supersoldato. Il suo rapporto con Dani oscilla tra la sorellanza e un senso di protezione materno. A fare da ponte – anagrafico ed emozionale – tra le generazioni giunge una Sarah Connor cinica, militaresca e senza una ragione per vivere. Custode di un retaggio dimenticato e di storie mai accadute, il personaggio della Hamilton si agita in un limbo, un mondo dove ogni sacrificio è vano, perché l’umanità “evoluta” compie ciclicamente i medesimi errori (con contorno di muri trumpiani).
Alle calcagna delle eroine si pone il Rev-9, un cacciatore con un arsenale di abilità devastanti. L’aspetto ordinario, quasi impiegatizio di Gabriel Luna cela una macchina che eredita i punti di forza del T-800 e del T-1000: un endoscheletro solido ricoperto di metallo liquido, che può separarsi dalla base per dare forma a un secondo Terminator completamente autonomo. Possiede la capacità di sdoppiarsi e di cambiare aspetto, può interfacciarsi con qualunque apparecchio elettronico, sfruttando per i propri scopi droni, server e qualunque amenità disponibile nell’era dell’internet of things. Tanto per abbondare, inganna facilmente le persone ed è esperto nella guerra psicologica. La parlantina non servirà a proteggere questa sorta di ragioniere col Wi-fi dai cazzottoni del mitico Arnold Schwarzenegger.
Il gigante austriaco si fa attendere durante il minutaggio, ma quando appare fa la differenza. Questo inedito T-800, esteriormente invecchiato, ha avuto una presa di coscienza già prospettata in Terminator 2: dare un valore alla vita altrui. Il cyborg ha vissuto in Texas per anni come una persona comune, assumendo il nome di Carl e diventando un padre di famiglia che vende tappezzerie. Ok, messa così fa un po’ ridere. Torniamo all’umanizzazione di Arnold: liberato dal giogo di Skynet per motivi che non vi sveliamo, ha plasmato il proprio destino e sperimentato emozioni sconosciute come l’affetto e il senso di colpa. O perlomeno il suo cervello artificiale le imita con perizia. Insieme a Sarah Connor in menopausa letale costituisce la guida e il supporto per i protagonisti esordienti, unendosi a loro in uno showdown ad alto tasso di wrestling meccanico.
Il tappezziere texano contro il ragioniere scheletrico.
Regia e fotografia rinunciano a ogni minima deviazione dai binari del mainstream per mostrarci un’azione cristallina, esaltante, condita con una CGI vistosa ma priva di un retrogusto amaro. Gli sdoppiamenti del Rev-9 e la varietà delle ambientazioni permettono a Miller e soci di giocare con le trovate sceniche. Tre macro-sequenze andrenaliniche lasciano il segno e fanno tranquillamente a testate con la concorrenza action dei tempi odierni. L’impronta produttiva di Cameron si nota in particolare nella gestione dei Terminator: superati i trascorsi altalenanti, queste macchine combattono come il pubblico si aspetterebbe, sfruttando l’ambiente a proprio vantaggio e prodigandosi in coreografie che coniugano spettacolarità ed efficienza. Si avverte il peso di ogni colpo scagliato da questi automi, più agili dei loro progenitori e immuni alle camionate in faccia.
Ricordiamoci che non è tutto lega polimetallico-mimetica quel che luccica e che bisogna perdonare alcune leggerezze a mister Terminator 6. Carl il tappezziere farà storcere il naso ai puristi, ma soppesando le molteplici sfumature del granitico Arnold negli altri episodi, si tratta di una soluzione narrativa ponderata. Dobbiamo esigere una logica inattaccabile in una saga dove una specie di Google impazzito invia dei robot assassini nel passato? La bistrattata Grace, guerriera di punta in questo Dark Fate, controbilancia il lato badass con una delicatezza emotiva e una genuinità morale che ne accendono lo sguardo. Semmai a risultare debole è la Dani di Natalia Reyes, soggetto conteso che manca di carisma per brillare in questo trio di picchiatrici. Rimane un mistero l’origine di Legion, Skynet 2.0 raccontato in due righe e visto all’opera in un paio di flashback/flashforward post-apocalittici alla Salvation. Aspetti che potevano essere approfonditi e che fornirebbero linfa ai sequel, a meno che le perdite al box-office non rigettino l’intera operazione nell’oblio. Fino ad allora, hasta la vista, continuity.
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