La nostra spiegazione di Jaws senza lo squalo ma con gli alieni al maneggio.
di Alessandro Sivieri
*ATTENZIONE: CONTIENE SPOILER SUL FILM*
“Ci serve un’astronave più grande…”
Niente male, per un comico. Sì, il tizio che ha vinto l’Oscar per la Migliore sceneggiatura originale con Get Out ha avuto un esordio da commediante in programmi come MADtv e, successivamente, Key & Peele. Ora, con un curriculum di tre film all’attivo, ha saputo tenerci con i nervi a fior di pelle più di quanto facesse crepare dal ridere gli americani imitando Morgan Freeman e Barack Obama. Cosa sappiamo di lui? Innanzitutto che gli piacciono gli attori con gli occhioni spalancati e che è bravissimo nella gestione del ritmo, sia umoristico che orrorifico. Jordan Peele riesce a costruire sequenze cariche di tensione e a sbatterci in faccia visioni agghiaccianti senza ricorrere all’espediente del jump scare, in favore del lento emergere di un’atmosfera malsana . Ne è un esempio il faccia a faccia tra la piccola Madison Curry e il suo doppio nel labirinto degli specchi di Us, come pure Daniel Kaluuya che, a notte fonda, vede un giardiniere che gli corre addosso nel più totale silenzio.
Le incursioni demenziali si concentrano perlopiù su Lil Rel Howery, spalla comica del protagonista in Get Out, e sui bizzarri battibecchi tra parenti in Us; fortunatamente non si tratta di bolle isolate all’interno della storia (siparietti della Marvel, parliamo di voi), quanto di personaggi ed espedienti narrativi che vengono inseriti nello script senza stonare nel quadro generale. Ogni figura, in soldoni, non agisce mai contro la propria natura, e se il suo comportamento fa ridere, non manda in vacca la suspense accumulata nelle scene precedenti.
Lo stesso regista, parlando con la stampa, ha affermato che i tempi comici e quelli horror hanno delle similarità evidenti, aspetto che gli ha reso facile il passaggio dalle imitazioni televisive agli omicidi con contorno di blaxploitation. Osservando il suo lavoro, non fatichiamo a credergli. In particolare, guardando la sua terza fatica (Nope), abbiamo fatto una nuova scoperta: quanto gli piace Steven Spielberg? Troppissimo. E a chi non piace, in fondo, il leggendario regista di Cincinnati? Ci ha regalato E.T. e soprattutto ha consegnato alla Storia del cinema una mattanza di bagnanti sull’isola di Amity. Proprio in Jaws troviamo l’aggancio più forte a Nope, con la postilla della località balneare sostituita dal deserto californiano. Per spiegarvi come abbia fatto Peele a ficcare uno squalo tra le nubi, dobbiamo partire da un incipit che al sottoscritto ha solleticato i ricordi d’infanzia.
UN INTRECCIO MISTERIOSO
Le pellicole di Peele si distinguono per un prologo straniante, da grattarsi la testa, basato su un elemento che si rivela fondamentale nel momento in cui le macchinazioni della sceneggiatura si fanno improvvisamente più chiare. Get Out si apriva con una partenza in auto e una carrellata ad alta velocità tra i boschi, evocando il pericoloso viaggio del protagonista Chris e il suo conseguente tentativo di fuga. Us partiva con lo zoom out da una parete piena di coniglietti in gabbia, proiettandoci di fatto nei bunker dove venivano generati e cresciuti i Tethered, i quali pasteggiavano allegramente con il coniglio crudo mentre la gente perbene se la spassava in superficie.
Il “grande segreto“, insomma, si palesava sullo schermo fin dalle prime battute, o meglio eravamo noi a dare una fugace occhiata al luogo del misfatto, esattamente come accade in Nope, dove iniziamo l’avventura sul set della sitcom Gordy’s Home: lo scimpanzé protagonista, spaventato da un palloncino, attacca brutalmente alcuni dei co-protagonisti. Alla sua furia sanguinaria assiste, terrorizzato, l’attore più giovane dello show, Ricky “Jupe” Park (Steven Yeun). Il ragazzino si è nascosto sotto un tavolo ed è rimasto illeso durante l‘attacco al cast, forse perché la tovaglia si frappone come una barriera tra lui e un contatto visivo diretto con l’animale; quest’ultimo, esaurito il raptus omicida, appare disorientato e non considera Jupe una minaccia. Cerca perfino di dargli la zampa come in uno sketch qualunque, prima di essere abbattuto dalla polizia. Il trauma infantile dell’attore si rivelerà determinante per gli sviluppi di Nope, ma voi credevate che il film parlasse di UFO e invece vi ritrovate con una scimmia impazzita. Dove cacchio è l’astronave?
Tranquilli, l’astronave non si fa attendere, sebbene non sia affatto come la immaginavate: poco dopo l’uccisione del padre di Daniel Kaluuya da una serie di piccoli oggetti in caduta libera, partono i titoli di testa e la telecamera ci porta dentro un gonfiabile. Se da piccoli venivate portati alle feste di paese e al parco giochi, ricorderete sicuramente cosa si prova a stare dentro un castello gonfiabile: l’assenza di equilibrio, l’elasticità delle pareti, l’odore di calzini, il ronzio del compressore ad aria e, soprattutto in presenza di scivoli, le cuciture che vi lasciavano cicatrici brucianti tipo gatto a nove code. Ecco, l’interno di Jean Jacket (soprannome dato all’UFO dai protagonisti) mi ha immediatamente riportato ai gonfiabili della giovinezza, con tutte quelle superfici dall’apparenza plasticosa e quella specie di scatola, lì in mezzo, che ha l’aspetto di un marchingegno atto a far funzionare il tutto. Perfino il chiasso da aspirapolvere industriale è lo stesso, corredato da una cacofonia di grida.
Si intuisce che quello sia l’interno dell’astronave e al contempo non se ne comprende la vera natura, pronta a emergere quando il regista lo riterrà opportuno. La sua architettura (o anatomia, che dir si voglia) presenta delle caratteristiche familiari, qualcosa che possiamo interpretare seguendo il nostro immaginario d’infanzia, quelle domeniche sui prati dove la mamma ci diceva “Date dieci euro al signore alla cassa e fatevi mezz’ora dentro la navicella gonfiabile”. Grazie a questo escamotage – e ad altri che prenderemo in esame – Jordan Peele introduce lo spettatore nel suo personale parco a tema; lo fa prendendo una serie di suggestioni inconsciamente decifrabili e distorcendole fino a renderle qualcosa di alieno. L’incipit con un gigantesco punto interrogativo diventa così un marchio di fabbrica, oltre che la chiave di volta del film, che lancia un avvertimento al pubblico: la corsa tra gli alberi come un invito a svignarsela il prima possibile, i coniglietti in gabbia al pari delle persone allevate come bestie, e infine uno scimpanzé fuori controllo con contorno di stramaledetto gonfiabile ai calzini.
IL MESTIERE DEL CINEMA
Non sembra la parete di coniglietti in gabbia?
Uscite un attimo da quel coso (anche perché dieci euro per mezz’ora sono davvero una ladrata) e tornare sul vialone principale del parco, tutto a tema western. Chissà, magari verrà messa in scena una sparatoria o si potrà fare un giro a cavallo! Peele gioca con l‘idea stessa di cinema (chi fa materialmente cinema? Quali figure gli danno vita?) e va a scandagliare determinati ruoli considerati marginali dal pubblico di massa, se non direttamente da certi produttori e registi autoreferenziali. Per compiere questa operazione, torna agli albori della Settima arte: nel 1878 un fotografo britannico di nome Eadweard Muybridge diede atto a ciò che viene considerato uno dei primi esperimenti di cinematografia.
Grazie a un apparecchio di sua invenzione, scattò 24 fotografie in rapida successione a un cavallo al galoppo, proiettandole poi su uno schermo nel 1880, alla California School of Fine Arts; tale evento è riconosciuto come la prima proiezione cinematografica mai avvenuta. Insieme al pioniere energetico Edison, Muybridge inventò poi il kinetoscopio, precursore delle odierne cineprese. Noi però ci fermiamo al cavallo. Anzi, al tizio che sta sopra il cavallo. Il fantino di Sallie Gardner at a Gallop di Muybridge è virtualmente il primo stuntman e attore mai visto, ed è un avo della famiglia Haywood, che si occupa di allevare e addestrare equini destinati a comparire in film e prodotti televisivi.
L’attività prosegue a gonfie vele da generazioni e la famiglia Haywood ha praticamente brandizzato se stessa e il mestiere che sostiene di aver ereditato da un illustre predecessore, ma quando il vecchio Otis Haywood Sr. (Keith David) viene ferito mortalmente da una monetina precipitata dal nulla, arrivano i problemi. Il primogenito Otis Jr. (Daniel Kaluuya) è ancora scosso dalla morte del padre e sembra incapace di far fronte a tutte le impellenze della sua azienda, in primis il contatto con i clienti: produttori e membri della troupe lo trattano con sufficienza mentre tenta di illustrare le regole per interagire con un cavallo in sicurezza. Se OJ si trova a proprio agio in sella, tra le persone appare impacciato e chiuso in se stesso, in poche parole un alienato. La sorella Emerald (Keke Palmer), determinata a sfondare a Hollywood, è ben più esuberante e portata alla comunicazione, sebbene veda l’attività familiare come un peso. Certo, i due fratelli potrebbero mettere da parte le divergenze e formare una buona squadra, se non fosse che qualcosa, forse la stessa cosa che ha causato la morte del papà, inizia a nutrirsi dei loro cavalli.
Convinti di trovarsi di fronte a un UFO, o meglio a un UAP (Unidentified Aerial Phenomenon), pianificano l’installazione di telecamere di sorveglianza e di esche per filmare l’astronave-creatura e ottenere fama mondiale. C’è in ballo una potenziale fortuna quando si tratta di documentare l’esistenza di un “miracolo cattivo“, denominazione data dai fratelli al recente corso degli eventi. Come ci ricorda Jordan Peele attraverso i bisticci dei protagonisti, quando su Internet spuntano le immagini di un oggetto volante non identificato, sono puntualmente sfocate o di una qualità così infima da rivaleggiare con le webcam degli anni ’90. Bene, è il momento di cambiare andazzo e immortalare (letteralmente: rendere immortale a livello iconografico) quello strano disco mangiacavalli.
Il regista riprende perciò un’altra delle sue abitudini, cioè il focus sugli emarginati, e non pensiamo al solo fatto di mettere dei personaggi di colore in un contesto tipicamente western. Nope compie delle incursioni nel mondo dello spettacolo per rendere centrali i mestieranti, i meno abbienti che, nonostante la scarsità di mezzi e di conoscenze tecniche, hanno l’occasione di portare a casa le riprese della vita. OJ ed Emerald inseguono quello che hanno battezzato Oprah Shot, un video così eclatante da garantirgli gloria imperitura e una bella ospitata nel programma di Oprah Winfrey. La posta in gioco si alza quando, in seguito a una telefonata particolarmente convincente, al gruppo si unisce Antlers Holst, il direttore della fotografia più in gamba sulla piazza.
L’uomo, interpretato da Michael Wincott (il cattivone capellone de Il corvo) non vuole solo ritrarre la creatura, vuole filmare la sequenza perfetta. In nome della causa si spinge a utilizzare un apparecchio analogico di sua invenzione, capace di registrare in formato IMAX (la scritta compare proprio sulle apparecchiature nel suo piccolo campo di appostamento). In effetti la pellicola di Peele è ufficialmente il primo horror a fare ampio uso di questa tecnologia, della quale Holst è un ambasciatore, nonostante le sue attrezzature funzionino a manovella, poiché l’UFO/UAP è in grado di mandare in corto ciò che si alimenta di elettricità.
L’ossessione di Holst è tale da portarlo a rischiare la vita pur di ottenere una ripresa cristallina e con la luce ideale, come se un Roger Deakins indiavolato lavorasse a un film indipendente con un soggetto geniale. La sua indole richiama il capitano Quint di Jaws e, risalendo la corrente del pantheon mostrifero, un capitano Ahab con la cinepresa al posto del rampone. Questa personalissima caccia alla bestia ha il sapore di un conto in sospeso, di un’impresa alla quale il predestinato decide di sacrificare ogni fibra del suo essere. Non conta quanto letale sia l’esito, l’importante è aver catturato il momento.
Ci ritroviamo perciò con un film girato nel film, nato dal sodalizio fortuito tra chi vorrebbe “soltanto” sbarcare il lunario e rifarsi dei cavalli persi, e chi sta perseguendo un traguardo artistico mai raggiunto prima. Se punti di vista sull’obiettivo finale sono diversificati, a unire la squadra è la consapevolezza di giocare col fuoco, di avere a che fare con qualcosa di mai visto (e proprio per questo mai filmato!). Per affrontare il predatore è necessario rispettarlo, capire le sue modalità d’azione, evitando di trattarlo come un fenomeno da baraccone o una minaccia astratta. Questo è l’errore che fanno al vicino luna park Jupiter’s Claim, lo stesso sbaglio della miope amministrazione di Amity Island di fronte a uno squalo affamato. A questo punto potreste dire “Ecco, è la centesima volta che tiri in ballo Spielberg, spiegaci il nesso prima che ti diamo fuoco alle dita dei piedi”; pertanto, prima di tornare nel luna park, misuriamo il tasso di spielbergosità dell’opera in oggetto.
LO SQUALO NELL’ARIA
Viaggiamo a ritroso e partiamo dalle opere di science fiction anni ’50 e ’60, amate moltissimo da Spielberg stesso, al punto da dargli un rinfrescata con Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T. e La guerra dei mondi (remake di un film che fece storia per i VFX avanzati) o addirittura parodizzarne taluni aspetti in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. La forma discoidale dell’UFO è un evidente collegamento all’immaginario pop di quegli anni, oltre che alle presunte testimonianze dell’incidente di Roswell, sebbene Jean Jacket, la navicella che appare in Nope, abbia delle forme leggermente più morbide e irregolari.
In fondo non si tratta di un velivolo quanto di una creatura con precise funzionalità anatomiche, che verranno illustrate nel corso di questa disamina. La silhouette di Jean Jacket, agghiacciante nella sua semplicità, scatena terrore nello sguardo delle vittime, specie quando si tratta degli equini che ama risucchiare; ne abbiamo un esempio durante il primo atto, quando OJ porta il cavallo Lucky alle riprese di uno spot e un membro della troupe, avvicinandosi con una sfera riflettente che ricorda proprio le forme sinuose dell’UFO, fa imbizzarrire l’animale.
Nemmeno gli umani rimangono indifferenti alla vicinanza di Jean Jacket: in pieno stile Incontri ravvicinati del terzo tipo, guidatori solitari nel mezzo del deserto si ritrovano con l’auto in panne e la radio fuori uso, rispettando quella consuetudine che dipinge gli alieni come generatori di campi elettromagnetici in grado di mandare in corto circuito i nostri strumenti. Altro grande espediente spielberghiano che viene riproposto è l’uso della Spielberg Face, un avvicinamento progressivo della camera allo sguardo stupito dei personaggi, intenti a osservare un prodigio fuori campo; tecnica che si sposa alla perfezione con la predilezione di Peele per gli occhioni spalancati e per Daniel Kaluuya, il quale si conferma una delle “maschere” più inquietanti di Hollywood.
In Incontri ravvicinati Spielberg optò per la la riproposizione visiva della comune idea di extraterrestre: pelle liscia e pallida, testa e occhi sproporzionati, corporatura minuta; nel caso del capolavoro del 1977, gli alieni erano interpretati da bambini in costume, resi credibili dall’abilità del regista nel giocare con le distanze e gli effetti di luce. In Nope assistiamo a un faccia a faccia notturno tra OJ e dei presunti alieni nelle stalle, anche se gli intrusi si rivelano essere dei ragazzini che hanno giocato una burla agli Haywood con delle maschere prelevate dal luna park Jupiter’s Claim (altro sintomo dell’ossessione contemporanea di riprodurre, mitizzare e mercificare tutto ciò che ha presa sulla gente). Mentre i piccoli “extraterrestri” si svelano e avanzano verso Daniel Kaluuya, quest’ultimo è diviso tra il terrore, l’urgenza di riprendere la scena col cellulare e la necessità di salvaguardare gli animali.
Uno sguardo attento noterà, in pochi istanti, che c’è qualcosa fuori posto nell’outfit e nell’espressività di questi alieni, ma la sequenza è così ben costruita, a livello di fotografia e sonoro, da rendere credibili dei teppistelli mascherati in un maneggio fino al termine dello scherzo. Peele si dimostra in possesso dei mezzi adeguati per sospendere la nostra incredulità quando il racconto lo rende necessario, alla stregua di uno Spielberg con le sue tutine gommose. Veniamo gabbati come Daniel Kaluuya, o forse vogliamo essere ingannati, come direbbe Michael Caine in The Prestige: non stiamo davvero guardando, ci stiamo godendo la minuziosa costruzione dell’atmosfera e l’ottima mimica dei ragazzini mentre OJ indietreggia spaventato. La tensione che scaturisce dall’accorciamento delle distanze tra il protagonista e l’estraneo inumano fa pensare ad analoghi incontri dai risvolti pericolosi, primi tra tutti Signs, con Mel Gibson in mezzo al grano, e il remake spielberghiano de La guerra dei mondi, quando i long take ci fanno assaporare la discesa degli alieni nel seminterrato, in cerca di Tom Cruise e di sua figlia.
Non citiamo War of the Worlds a caso, perché Peele va a pescare un paio di idee sia dal film del 1953, all’avanguardia per design ed effettistica, sia dalla versione del 2005. I tripodi dell’originale deambulavano grazie a raggi magnetici, a malapena visibili dallo spettatore, mentre per la loro struttura la produzione si basò sull’anatomia di diversi animali, in primis le mante e i cobra, sebbene il portamento e la posizione delle armi evochi anche cigni e scorpioni; per il suo Jean Jacket, Peele ha seguito la medesima rotta, prendendo a modello le meduse e altre creature oceaniche (basti pensare ai molluschi e al polpo con le sue capacità di shapeshifting).
Inoltre, dato che siamo in una fattoria, è d’obbligo parlare di un sano sistema di irrigazione! Ne La guerra dei mondi by Steven si scopre che i tripodi fertilizzano le loro coltivazioni con il sangue umano, spruzzandolo con getti ad altra pressione dopo aver “prosciugato” i malcapitati. Gli schizzi arrivano a sporcare le finestre della casa in cui si nascondono Tom Cruise e soci, esattamente come in Nope, quando Jean Jacket rigurgita fiumi di sangue e accessori non digeriti delle proprie vittime. Le vetrate di casa Haywood si tingono di scarlatto, ricordandoci sia le annaffiature dei tripodi che gli horror anni ’80 con le haunted mansion. L’operato di Jean Jacket non è un atto meramente fisiologico, ha finalità di provocazione, essendo questo UFO un cacciatore determinato a segnare il territorio, e ne abbiamo un altro assaggio quando si posiziona sull’automobile di OJ, quasi sfidandolo a uscire.
Comprensibilmente, Daniel Kaluuya dà un’occhiata fuori, vede la sagoma dell’astro-predatore torreggiare su di lui (un gigantesco ombrello che scherma la pioggia) e dice “Nope“. Nope, col cavolo che esco. Nope, non posso accettare che questo stia davvero succedendo. OJ si trova metaforicamente su una barca in mezzo al mare (avete presente il pippone su Jaws come fonte di ispirazione principale?) o in visita al recinto del Tirannosauro, e in effetti ci transita davanti agli occhi un altro lavorone di Spielberg, basato sul romanzo di Michael Crichton: Jurassic Park parla di un uso senza scrupoli dell’ingegneria genetica per riportare in vita animali sui quali non possiamo esercitare controllo. Il fine è lo spettacolo, l’accumulo dei biglietti verdi nel portafoglio del pubblico, sebbene l’imprenditore John Hammond abbia un lato idealista che lo spinge a creare qualcosa di mai visto prima, un’esperienza di intrattenimento che sia davvero unica e speciale. A Spielberg piacciono i parchi tematici e questa predilezione viene rimarcata in altre pellicole (Hook, Indiana Jones e il tempio maledetto). Peele, come avrete compreso, ha inclinazioni analoghe.
Torniamo così a OJ, chiuso in un veicolo, durante una nottata piovosa, ostaggio di una bestia – lo squalo bianco/dinosauro – che nessuno può domare. Invece dei resti di un capretto appena divorato, sul parabrezza gli piomba la statua di un cavallo che aveva piazzato in mezzo al ranch come esca. Jean Jacket, ricordiamolo, risputa quello che non digerisce e basa la sua dieta sui succulenti stalloni della famiglia di OJ (i capitoli del film, infatti, portano il nome degli equini che si pappa, oltre che dello scimpanzé). Chi è il losco figuro che ogni giorno, intorno alle 18:00, serve all’UFO i cavalli degli Haywood? Nientedimeno che Jupe Park (cognome per nulla causale), il quale ha aperto un personalissimo Jupeassic Park. Come promesso, ci ributtiamo in mezzo alle giostre!
IL PARCO A TEMA
Steven Yeun e il suo Jupiter’s Claim hanno un minutaggio troppo generoso per essere declassati a elemento di contorno. La loro esistenza, insieme al ricordo del massacro di Gordy’s Home, costituisce il fulcro del messaggio del film. Nel parco di Jupe si può trovare una scenografia western a tutto tondo, tra tori meccanici, saloon e un pozzo dove è possibile stamparsi un selfie (ennesimo rimando alla necessità di catturare un momento). L’attrazione migliore è però l’incursione dell’UFO per divorare un cavallo, sotto lo sguardo sbigottito del pubblico che siede in un anfiteatro di legno nel deserto. Jupe stesso si pone come intermediario e profeta di questo avvenimento eccezionale, dell’impossibile che diventa possibile. Tra gli astanti siede una donna orribilmente sfigurata che un tempo recitava in Gordy’s Home. Il perché di tutto questo si può intuire con un viaggio nella psiche di Jupe, non meno contorta delle budella di Jean Jacket.
La sopravvivenza di un giovane Jupe alla mattanza della scimmia ha dato forma agli eventi come li conosciamo. Certo, creature come Jean Jacket si sarebbero probabilmente aggirate sulla Terra, evolutesi con l’uomo o provenienti da chissà dove, ma non è detto che l’esemplare apparso nella storia si sarebbe affezionato ai cavalli degli Haywood senza l’intervento di questa ex-stella televisiva. Ricky Park ricorda ogni dettaglio del rampage di Gordy, paragonabile alla rivolta di un King Kong in miniatura. Abbiamo assistito alla carneficina dal punto di vista di Jupe, nascosto dietro il velo di una tovaglia, al pari delle nuvole statiche che celano la presenza di Jean Jacket nei cieli.
Quando lo scimpanzé ha aggredito gli attori dello show, uccidendone alcuni, qualcosa è scattato nella mente di un giovanissimo Jupe, testimone impotente dei fatti e superstite per una serie di circostanze. Il personaggio di Steven Yeun ha assistito a un altro “miracolo cattivo“, quello che fa da premessa all’intera pellicola; il bambino è allo stesso tempo terrorizzato e incapace di distogliere lo sguardo, cosa che rimanda a tutti i ragionamenti che abbiamo fatto sul voyeurismo e sulla natura di uno spettacolo che, per quanto cruento, ci tiene incollati allo schermo. La scimmia (interpretata in motion capture dall’ottimo Terry Notary) interrompe l’attacco e osserva Jupe con un misto di smarrimento e imbarazzo, per poi avvicinarsi e cercare un contatto fisico. Non ci è dato sapere se Gordy fosse più affezionato a Jupe rispetto al resto del cast o se abbia riconosciuto, in qualche modo, la sua inoffensività.
Jupe viene risparmiato, sebbene la vicenda costituisca un punto di svolta: l’incidente di Gordy’s Home cambierà per sempre le regolamentazioni sull’utilizzo di veri animali a Hollywood, e il piccolo Ricky Park diventa una star giovanile con un passato ingombrante sulle spalle, come se gli attori di Stand by Me fossero rimasti coinvolti in una sparatoria o se il protagonista di Mamma, ho perso l’aereo! si fosse drogato più dell’intera comunità di San Patrignano… cosa che tra l’altro è avvenuta! A colpirci è un particolare dei flashback di Jupe, ovvero la scarpetta di una giovane co-protagonista che rimane perfettamente verticale mentre la scimmia sta devastando il set. Eccolo, il miracolo cattivo. Quante probabilità c’erano che una scarpetta modello Cenerentola restasse in equilibrio in una situazione del genere? O forse era conficcata nelle assi del pavimento? Domande irrilevanti, poiché la scarpetta è l’anomalia suprema in mezzo a un caos che risulterebbe insopportabile per chiunque, figuriamoci per un bambino.
In seguito all’abbattimento del primate e alla cancellazione dello show, Jupe ha progettato un museo segreto nel proprio parco a tema, dove tra i vari oggetti di scena figura la scarpetta, custodita in una teca, nell’identica posizione di quella fatidica giornata; un segno della fortuna sfacciata del giovane attore, o anche il simbolo della sua predestinazione, la sua convinzione di non essere scampato alla furia di Gordy in modo fortuito. Jupe ha scoperto chissà come l’esistenza di Jean Jacket e ha organizzato un’esibizione dove quest’ultimo, seguendo le sue abitudini alimentari, esce dalle nubi e si ciba di un cavallo appositamente piazzato dal cowboy, mentre il pubblico osserva la scena senza parole. Il personaggio di Steven Yeun si è convinto di poter gestire la navicella carnivora proprio come è convinto di aver fatto rinsavire Gordy, oppure sta semplicemente replicando, a livello inconscio e in scala più ampia, la situazione di rischio nella quale si è trovato da piccolo.
Cowboys vs. Aliens… di nuovo!
Tutto va spettacolarizzato, insomma. Peccato che nessuno possa conoscere intimamente Jean Jacket o Gordy, e nemmeno un cane inferocito o un Tirannosauro. E se non conosci qualcosa come le tue tasche, non hai alcun potere su di essa. Jupe trascura beatamente i suoi limiti nella catena alimentare e si presenta conciato come un telepredicatore yankee che annuncia la venuta del Leviatano (nell’introduzione del film c’è pure una citazione biblica). L’UFO plana sulla sua testa alla stregua di un cappello da cowboy gigante e aspira tutto quello che si trova nell’anfiteatro, inclusi gli astanti e il proprietario. Tipico caso spielberghiano dove la main attraction di un parco a tema va fuori dai parametri. Anzi, nella nostra arroganza di bipedi ci siamo adagiati su un controllo che in realtà non abbiamo mai avuto. Quando Disneyland non funziona, i pirati si mangiano i turisti, come direbbe Ian Malcolm, e l’ultima impressione che abbiamo di Jupe è la sua figura indifesa mentre Jean Jacket sta per risucchiarlo. A rimarcare la critica sul voyeurismo, il personaggio di Steven Yeun perde ogni istinto di autoconservazione e rimane con gli occhi incollati a un colossale Gordy 2.0 che fa piazza pulita dei suoi clienti. Signori, grazie della visita, il recinto è chiuso e i buoi sono fuggiti. Ora, dopo tanto tempo dedicato alle prede, è opportuno concentrarsi sul predatore.
ANATOMIA DI UN UAP

Nell’ampio filone della fantascienza cinematografica non mancano astronavi dalla natura organica, eppure è la prima volta che a Hollywood viene lanciato un film ad alto budget con un UFO che è anche un predatore senziente. Jean Jacket è una creatura che definiamo “aliena” poiché mai classificata dalla letteratura scientifica, ma ciò non significa che provenga dallo Spazio; può essere un animale estremamente raro, antico quanto i dinosauri, abituato a vivere negli strati più alti dell’atmosfera e a scendere per nutrirsi, un po’ come il Megalodonte, che nella finzione filmica vive negli abissi ed emerge in cerca di cibo.
A prima vista Jean Jacket ha le sembianze ammorbidite di un classico disco volante, sebbene quest’ultima sia la sua forma “compressa”, al pari di una conchiglia o di altri organismi marini che in particolari situazioni attraversano una fase di unfolding; si aprono, assumono un aspetto diverso. Durante lo scontro finale, Jean Jacket estroflette le sue parti interne per diventare molto più grande e impressionare la famiglia Haywood, sulla falsariga di un pavone che fa la ruota per reclamare la supremazia e attirare i partner. I tessuti membranosi si librano nell’aria come una gigantesca vela, sorreggendo una “scatola” centrale che fa sia da cervello che da occhio. Per realizzare questa seconda forma, Peele si è ispirato agli Angeli dell’anime Neon Genesis Evangelion, a dimostrazione della sua ecletticità.
Creatura complessa, questo Jean Jacket, il cui nome scientifico è Occulonimbus edoequus, appellativo che suggella la sua passione per i cavalli belli freschi. Su Reddit c’è addirittura chi ha disegnato degli schemi sulle sua anatomia interna, localizzando con precisione gli organi sensoriali e il tratto digerente. Stando alle dichiarazioni di Peele, i progettisti sono partiti dal concetto di un’entità eolica in grado di muoversi a piacimento e con le proprietà di un origami. Vi sono state delle consultazioni con esperti della NASA in materia di aerodinamica e propulsione ionica, oltre che di biologi marini con un’ampia conoscenza delle meduse. Queste ultime sono le creature più efficienti dell’oceano e il loro ciclo di consunzione delle prede non è distante anni luce dalle sanguinose digestioni di Jean Jacket.
L’Occulonimbus non è solo in grado di levitare senza peso e di stritolare le vittime, è un animale capace di apprendere. I suoi gusti alimentari vengono influenzati dal suo territorio di caccia, che difende gelosamente, e ha imparato a riconoscere i mammiferi appetitosi in base a determinate caratteristiche come forma e colore. Tali dettagli fanno sì che OJ sia in grado di ingannare la bestia facendole ingoiare un cavallo finto, che verrà risputato senza tanti complimenti. In quel momento il cacciatore impara a distinguere tra i bocconi innocui e quelli che potenzialmente possono danneggiarlo. La famiglia Haywood, in qualche modo, ha introdotto un nuovo pattern comportamentale in Jean Jacket e lo sfrutta contro quest’ultimo, vestendosi di un determinato colore e installando pupazzi gonfiabili nel ranch per “ingannarlo“.
L’astuzia di OJ non significa né vittoria né controllo. Avendo da sempre a che fare con gli animali, il fantino si dimostrato più umile di Jupe e ha trovato un sistema per comprendere l’Occulonimbus. “Comprensione” è la parola chiave. La nostra intera analisi ha tirato in ballo scimpanzé, squali, Tirannosauri; predatori che, messi alle strette, diventano ulteriormente minacciosi. La riflessione di Peele, trasmessa a OJ ed Emerald prima che fosse troppo tardi, è che un predatore non ammette negoziati o forme di addomesticamento. L’unica via è studiarne il più possibile le abitudini, sperando che resti coinvolto nello scenario tipico che abbiamo artificialmente ricostruito per lui e diventi perciò vulnerabile. In una visione collettiva prettamente antropocentrica, è bene tenere a mente che un animale non ragionerà mai come noi e non si farà i medesimi problemi sull’etica e sul calcolo delle probabilità, che si tratti di una scimmia in un programma umoristico o di un UAP insaziabile.
CONCLUSIONE
Il biglietto per l’attrazione più letale del parco a tema è di sola andata, almeno finché qualcuno si dimostrerà così scriteriato da farle assaggiare la ciccia e costruirci uno spettacolo intorno. Solo un folle vorrebbe fare un giro su una giostra impazzita, diciamo un folle con gravi traumi infantili o un cineasta in cerca dell’inquadratura da Oscar. Il Jupiter’s Claim viene distrutto durante il film – o meglio, aspirato – ma ammirando l’UFO in movimento rimane la sensazione abilmente orchestrata di una gita in ottovolante, specie se prestiamo attenzione al verso di Jean Jacket: non vi è traccia del sinistro rombo dei tripodi, sebbene questa sia la prima analogia a balenare nella mente dei cinefili; il suono emesso dall’Occulonimbus è correlato alle ultime prede ingurgitate, dando vita a una mescolanza di nitriti e grida umane. Il minimo comune denominatore è l’agonia, condita dal panico assoluto. E se al sottoscritto gli interni dell’alieno ricordano un gonfiabile, l’urlo collettivo sembra quello di una navetta delle montagne russe quando inizia il giro della morte. Che gita memorabile, papà Steven! Puoi dire allo zio Jordan di accompagnarci ancora?
Per chi se la fosse persa, ecco la nostra videorecensione di Nope:
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