La relazione tossica con il famiglio che ti procura i Warm Bodies.
di Alessandro Sivieri
Sbatti il mostro in terapia.
Può passare molto tempo prima di accorgersi di essere in una relazione tossica. Nel caso di un signore delle tenebre, può trascorrere un secolo. Tale rapporto si fonda su un potente manipolatore che ti incontra in un periodo di smarrimento, ti lega e sé, ti promette la bella vita e finisce per monopolizzare tutto ciò che costituisce la tua persona: le emozioni, il tempo, le energie. Senza neanche realizzarlo ti annulli completamente per servire un altro individuo, incapace di concepire un altro tipo di esistenza, perché nel frattempo sei diventato debole e assuefatto. Quando per miracolo hai un’epifania, ti accorgi di tutte le stronzate che ti sono state rifilate, dei cadaveri dissanguati che hai dovuto accatastare in cantina. Dopo un’eternità inizi a chiederti cosa possa renderti felice e scopri di essere tu ad avere il potere. Il manipolatore ti ha tenuto tra le sue grinfie perché, sotto sotto, è più fragile di te. A suo modo ti vuole bene, ma l’espressione del suo amore è distruttiva per entrambi.
Potevamo essere ottimi partners in crime e invece siamo due mostri. A furia di chiudere gli occhi, sorvolando sui comportamenti allarmanti del compagno, diventiamo simili a lui e ci occupiamo dei suoi capricci, anche se le attenzioni non sono mai reciproche. Una relazione paritaria degenera fino a diventare un perverso gioco tra servo e padrone, e in questo caso il servo è chiamato famiglio. Sì, sono faccende che viviamo tutti i giorni e hanno l’aria decisamente mostruosa. Che sia la giusta metafora? Chris McKay, reduce da LEGO Batman e The Tomorrow War, usa proprio la mitologia mostrifera per offrirci una lettura attuale delle dinamiche di una co-dipendenza affettiva. La storia, ideata insieme al fumettista Robert Kirkman, ha il pregio di unire delle intuizioni intelligenti a uno sviluppo umoristico e caciarone: basta con l’ennesimo remake di Dracula, focalizziamoci sul povero Renfield, pazzoide mangiatore di insetti che farebbe qualunque cosa per compiacere il suo maestro.
Siamo in un classico gruppo di terapia con buffet di dolci ammuffiti e caffè al petrolio, uno di quei circoli dove il coordinatore spara frasi motivazionali e propone manuali di auto-aiuto mentre i presenti parlano del pessimo rapporto con il coniuge, con i genitori e con il capo. In particolare c’è un ascoltatore taciturno che di magagne con il boss sembra averne parecchie. Parte subito un flashback dove il Dracula di Nicolas Cage – un mattatore assoluto – è sovrapposto a quello di Bela Lugosi e accoglie nel castello Nicholas Hoult, che qui assume le caratteristiche sia di Renfield che di Jonathan Harker. Il giovane avvocato, giunto per concludere una vantaggiosa compravendita immobiliare, viene trasformato nel famiglio del Conte e da quel momento, per decenni, deve offrigli prede umane felici e in buona salute. All’inizio è divertente e i decenni trascorrono tra i bagordi, ma le brame di Dracula diventano incontrollabili e il duo è costretto a vivere in condizioni progressivamente miserrime per sfuggire ai cacciatori di vampiri.
Torniamo ai giorni nostri, con il Conte costretto ad abitare uno scantinato putrescente, in attesa di riottenere i pieni poteri, e Renfield che si avventura nel mondo esterno in cerca di vittime. Suggestiva l’ambientazione di New Orleans, il cuore esoterico degli Stati Uniti che nella cultura popolare viene associato al voodoo. Nel film la città assume i contorni di una Gotham in mano alle dinastie criminali e disseminata di locali in cui lavorano ragazze che non sfigurerebbero a un concerto dei Nightwish. In questo microcosmo si muove il Robert Montague Renfield di Nicholas Hoult, tenero e trasandato, che lascia riaffiorare lo zombie romantico di Warm Bodies quando barcolla con le budella in mano (dimenticate la parentesi da bastardone di The Menu). Affinché lo servisse con efficienza, il Conte ha donato al protagonista una parte dei suoi poteri, e lo stesso atto di ingurgitare insetti diventa un espediente per assumere, temporaneamente, forza e velocità sovrumane. Ovviamente, in una relazione basata sull’abuso, ciò che fa l’altro non è mai abbastanza, e uno sfigurato Dracula reclama a gran voce pullman pieni di cheerleader e un intero lotto di suore, senza scordarsi di rimarcare quanto Renfield sia inferiore a lui.
Nicolas Cage sfodera per l’ennesima volta quel tipo di pazzia che lo ha portato sulle sponde dei B-movie, oscurando il co-protagonista nonostante lo screen time limitato. Basta che il regista gli faccia mettere una dentiera aguzza, gli ordini di scatenarsi ed ecco che ci ritroviamo con un Dracula istrionico, kitsch, perfettamente incastonato nei toni fumettistici del prodotto. Poco importa se è mezzo decomposto con un trucco prostetico eccellente o se si abbandona al vittimismo in sala da pranzo, lo percepiamo come un predatore antico che ha seri problemi di empatia. Perché il nodo cruciale della pellicola non è tanto l’etica di una vita da succhiasangue o il dominio del pianeta, è la capacità di immedesimarsi nell’altro, di comprenderne i bisogni. E non esiste solo il Conte. Robert Montague Renfield ha dei bisogni come tutti, e se ne accorge quando salva la vita alla poliziotta d’acciaio Rebecca (Awkwafina), che combatte praticamente da sola tutto il crimine di New Orleans per onorare la memoria del padre.
Mentre è a caccia di “cibo” che possa soddisfare i capricci del Conte, il protagonista decide di fronteggiare una masnada di delinquenti (travestiti da lupi mannari, naturalmente) per soccorrere la tostissima sbirra, e tra i due scatta la proverbiale scintilla. Renfield ne ammira l’indipendenza, la capacità di non scendere a compromessi, e forse un po’ se ne invaghisce. Solo allora comprende che può rifarsi una vita e può perfino essere un eroe, usando i suoi poteri per difendere i deboli. Il conflitto della strana coppia con la mala cittadina corre in parallelo con le sessioni di terapia e con la separazione da Dracula, che rispecchia adeguatamente le fasi burrascose di una crisi: c’è lo stalking, ci sono le frecciatine sarcastiche, ci sono le reciproche accuse, dove scopriamo che in fondo Renfield non è un santo e si è lasciato sedurre da una condotta mostruosa perché la normalità gli andava stretta. Gli sbagli che ha fatto li ha fatti da solo, ma questo senso di colpa in ultima serve a convincerlo che è l’ora di voltare pagina.
La redenzione del pallido Nicholas Hoult acquisisce una progressiva dimensione action che vive di coreografie creative ed ettolitri di sangue ai livelli di James Gunn dopo una sbornia di acido da batteria. Preti che esplodono, piatti da portata usati come il chakram di Xena, gente impalata con gli arti altrui, il menù comprende un’ampia dose di ultraviolenza che aspetta solo Keanu Reeves e un cane da vendicare. Non è tutto rose, fiori donati al commissariato e mutilazioni: la CGI comincia a mostrare il fianco quando un comune essere umano emette più emoglobina di un capodoglio, e per giunta con la forza di un idrante, sebbene la patina tra il trash e il supereroistico aiuti lo spettatore a godersi lo spettacolo senza troppe pretese. Nemmeno le prove attoriali, salvi i due protagonisti complessati, spiccano per credibilità, a partire da una Awkwafina (pseudonimo di Nora Lum) davvero macchiettistica, seguita da un Ben Schwartz che interpreta un rampollo mafioso da farcire di sberle dopo cinque minuti. Un momento, era questo l’obiettivo del personaggio, farsi odiare a morte! Ok, Ben Schwartz funziona.
La direzione di Chris McKay non si perde in lungaggini e punta all’autoironia condita dalle mazzate. A un certo punto, durante la battaglia finale, i cattivoni scendono da una scalinata esattamente come nella Chateau Fight di Matrix Reloaded, a dimostrazione di un gusto per l’intrattenimento che pesca da generi profondamente diversi e li miscela con efficacia, sfruttando come collante l’emancipazione di un famiglio della porta accanto. Il montaggio rimane il punto debole del carrozzone, buttandoci addosso stacchi per nulla eleganti durante le colluttazioni e pure nelle sequenze di dialogo. Ok, non siamo allo stato dell’arte sul piano tecnico, eppure questa toccante zuffa vampirica riesce ad accontentare un ampio spettro di palati: chi ricorda i classici Universal, chi ama gli impalatori transilvani, chi adora Nicholas Hoult con gli occhioni da cerbiatto Disney e chi è pronto a cercare su Google “8 film da vedere se ti è piaciuto Nicolas Cage in Renfield”. E a parte una riflessione sull’oscurità dei rapporti umani, è tutto ciò che ci portiamo dietro dopo questi 90 minuti scanzonati.
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