Safari nostalgico in un bioparco di Kaiju, offerta all inclusive per la famiglia.
di Matteo Berta e Alessandro Sivieri
Ebbene, i dinosauri erano rinati grazie al sogno di un milionario. Cioè, non proprio rinati, erano stati riportati indietro come ibridi genetici a base di rospi e dipendenza da lisina. Il progetto, causa falle nella sicurezza e profezie del professor Malcolm, è fallito ancor prima di inaugurare un sontuoso parco a tema. I dinosauri, allora, hanno prosperato e invaso la Terra. Poi, a causa del clima inospitale, si sono nuovamente avviati verso l’estinzione. Solo pochi esemplari sopravvivono in una manciata di isole tropicali, e a essere in crisi è il franchise di Jurassic Park (ora Jurassic World), che deve essere trascinato fuori dalla trilogia orchestrata da Colin Trevorrow, quella che a noi, pur con i suoi difetti, era piaciuta, ma che è stata considerata da parecchi fan alla stregua di un pantano. A questo punto hai due vie da percorrere: o lasci fossilizzare la saga o speri in una ri-rinascita. La vita deve trovare il modo. Anzi, il cinema deve trovare il modo.

Cos’hanno fatto la Amblin e la Universal? Sono salpate verso l’ignoto come il capitano Quint e hanno pescato Gareth Edwards, un regista di azione pura e mostri grossi, uno che zitto zitto ha introdotto l’incarnazione moderna di Godzilla, ha girato un apprezzato episodio non numerato di Star Wars e, non contento, ha pure sfornato The Creator. Non è l’innovatore del secolo ma non è nemmeno un pivello, è un cineasta navigato, solido, che si diletta con i Kaiju e ficca grossi fucili in mano a personaggi marziali senza scadere nella farsa. Il timoniere in incognito rimane Steven Spielberg e il navigatore è lo storico sceneggiatore David Koepp. La bestia può essere domata e mantenuta fresca fino al ritorno in porto? I sodali Matteo Berta e Alessandro Sivieri si sono gustati l’anteprima di questo Jurassic World – La rinascita da Arcadia Cinema, insieme agli amici di Jurassic Park Italia e Paleo Nerd, con le aspettative frenate da diversi dubbi. In fondo a quella selva di ma, forse e magari, scintillava solitaria una luce di speranza. Sono stati ricompensati? Per saperlo, leggetevi questo doppio approfondimento, e scoprirete quanto è profonda la tana del Rancor.
CI SERVE UNA BARCA ANCORA PIÙ GROSSA
di Matteo Berta

Un film che sa come intrattenere, che parte con ambizioni più alte del previsto, poi molla le briglie e si lascia trasportare da quell’impulso istintivo e citazionista che ha fatto grande il cinema d’avventura degli anni ’80. Gareth Edwards sembra aver passato mesi chiuso in una videoteca polverosa, divorando VHS di Jaws, Predator, Alien, Indiana Jones e ovviamente Jurassic Park. Il risultato è un ibrido godibilissimo, che figlia proprio da quei riferimenti senza mai rinnegarli, e che riesce a essere – se non un capolavoro – almeno il più degno erede dei primi due capitoli della saga creata da Spielberg.

La narrazione si apre con un’impostazione quasi autoriale, nel tentativo di dare spessore psicologico a ogni personaggio. Un’illusione: dopo pochi minuti, il film si ricorda cos’è e cosa vuole essere – un’avventura pura, sudata, brutale e spettacolare – e abbandona con gratitudine ogni pretesa, lasciando parlare la giungla, i dinosauri e le corse contro il tempo. La sceneggiatura, scritta da David Koepp con un gusto dichiaratamente old school, funziona bene quando intreccia mistero, fantascienza e suggestioni archeologiche, un po’ meno quando cerca di umanizzare troppo figure che sono pensate per essere maschere, archetipi da B-movie, e nulla più. Ed è proprio lì che si inceppa qualcosa.

Il terzo atto, purtroppo, manca del colpo finale. Niente climax, nessuna liberazione catartica: si ha la sensazione di un grande coito interrotto, come se all’ultimo momento qualcuno avesse staccato la spina per non rischiare troppo. La tensione accumulata non esplode, si dissolve. Peccato, perché fino a quel momento il ritmo, la tensione e la costruzione delle sequenze avevano funzionato.

La colonna sonora di Alexandre Desplat accompagna con rispetto e misura, proponendo nuove tracce sinfoniche interessanti, ma inchinandosi con riverenza al materiale ereditato da John Williams. Non lo eguaglia, ma ne onora l’essenza.

La Rinascita si inserisce nel canon dopo Dominion, ma ha tutta l’intenzione di fare tabula rasa. È una lettera d’amore al passato, scritta con l’ingenuità di chi ha amato quei film senza preoccuparsi di rinnovarli. E forse è proprio questo il suo pregio più grande.
JURASSIC ALIEN: LA CITAZIONE
di Alessandro Sivieri

Quando Steven Spielberg acquisì i diritti del romanzo di Michael Crichton (il padrino dei thriller scientifici, mica un pigiatore di tasti qualunque), non tutti annusarono un potenziale nell’iniziativa. I giornalisti, le case di produzione, gli addetti ai lavori dissero che i dinosauri non erano una adeguata risorsa cinematografica, roba che interessa solo ai bambini. I tempi delle bizzarre creature di Ray Harryhausen erano finiti da un pezzo, sembrava tutto terribilmente démodé. E poi, come li animi, questi lucertoloni? Usi ancora lo stop-motion? No, dai. Allora cosa rimane? Le marionette o una computer grafica ancora acerba? E Spielberg, senza scomporsi, disse “Why not both?”. In fondo poteva contare su due maestri come Stan Winston e Phil Tippett, che vinsero pure l’Oscar nel 1994 grazie all’impresa. Detto fatto, Jurassic Park divenne un brand planetario, una macchina da soldi che reinventò letteralmente la percezione pubblica dei dinosauri e fece appassionare migliaia di giovani spettatori alla paleontologia.

Ora, dopo sei film e un panorama dell’intrattenimento drasticamente cambiato, ci troviamo di fronte a una seconda cine-estinzione: ci sono mostri di ogni tipo e dimensione, scene truculente, esplosioni ogni due minuti, e i dinosauri non interessano più a un pubblico ipersaturo. Rischiano di tornare in un museo. Anzi, stanno smantellando perfino le esposizioni a loro dedicate, e questa non è solo la realtà del franchise, è l’intero presupposto di Jurassic World Rebirth, che riporta le nostre adorate creature su un’isola (nella fattispecie Saint-Hubert, vicino a Barbados) e interrompe la breve fase di convivenza con l’uomo. I pochi esemplari rimasti collassano per strada e l’intero microcosmo giurassico torna a incastonarsi nel mito, alle cose desuete e poco intriganti. Le oasi dove questi animali hanno trovato un equilibrio sono temute dai navigatori e pattugliate dall’esercito, che le tratta come zone di quarantena. Meglio così, no? Quel cazzo di lucertolone svenuto sull’autostrada mi fa fare tardi al cenone aziendale. Sembra proprio la fine. Servirebbe qualcosa in grado di sfamare i quarantenni zeppi di ricordi e di catturare l’attenzione dei ragazzini, quelli nel 1993 non erano nemmeno un’ipotesi nella vita dei loro genitori.

C’è stato un Jurassic World, prima del ritorno su un’isola. Nel bene e nel male, la trilogia ci ha lasciato parecchi spunti su cui ragionare e ha tenuto fede ai dilemmi sulla bioetica esposti da Crichton. Spielberg è disposto a scommettere su qualcuno, e si tratta del cacciabombardiere di Kaiju, di Gareth Edwards. Uno che sviluppa storie di stampo militaresco e piazza armi da fuoco in mano a un gruppo di protagonisti le cui vicissitudini personali finiscono dove inizia il caricatore. Ed è un filmmaker bravo, moderno, non si perde in minuzie, non abusa di quell’umorismo gratuito che spesso polverizza il pathos di una scena. Attenzione, la saga non ha bisogno soltanto di mostri e cannoni, servono l’emozione, il mistero, l’epica di un mondo perduto che grazie a una scienza spregiudicata si è rifatto carne.

“Non liberate il Rancor!!”
Entriamo in sala con il timore su una spalla, l’entusiasmo sull’altra e il ChefigatatornaloSpinosauro che ci arroventa il bacino. Il prologo, a dirla tutta, non parte col botto: una cartaccia fa saltare l’impianto di un laboratorio di massima sicurezza, quando ancora la InGen tentava di creare bestie con più denti e più artigli per soddisfare le masse. Scienziati in tuta isolante che corrono in preda al panico, monitor che riportano letteralmente “Attenzione, dinosauri mutati fuori controllo”. Molto didascalico, l’introduzione standard di un horror fantascientifico, anche se l’apparizione del Distortus Rex fa presagire qualcosa di valido. Portando avanti il discorso degli ibridi, questo mostro si pone a metà tra lo Xenomorfo e il Rancor di Guerre stellari. Edwards voleva che provassimo un misto di terrore, ribrezzo e pietà solamente a guardarlo, e bisogna ammettere che ci ha visto lungo. Perfino le vasche colme di abomini genetici fanno tornare in mente Alien: Resurrection e le copie orripilanti di Ellen Ripley, organismi che vivono nell’agonia e che, se potessero parlare, ti chiederebbero di ucciderli. Sì, può funzionare, facciamo un atto di fede, rispettiamo quel patto sociale che si crea tra lo spettatore e il regista. La trama deve andare in una certa direzione per esprimere il meglio dei personaggi (mettete pure un asterisco dopo “personaggi”), delle ambientazioni, degli stilemi di un cinema d’avventura che qui torna alle basi testosteroniche degli Eighties.

Circa un lustro dopo gli eventi di Dominion, un’azienda farmaceutica senza scrupoli propone una quest alla mercenaria Scarlett Johansson: prelevare campioni dai tre dinosauri viventi più grandi del loro habitat (il cielo, il mare, la terra). Alla spedizione si unisce, con qualche peso sulla coscienza, il dottor Loomis di Jonathan Bailey, paleontologo che ha studiato con Alan Grant e che vorrebbe finalmente osservare queste creature nel loro habitat. A noi piace pensare che sia quel ragazzino del “tacchino gigante“, con l’entusiasmo per gli scavi e 45 anni portati bene, ma è difficile. Apprezziamo che non sia il solito nerd gracilino e che non si tiri indietro di fronte alle pareti rocciose e agli acquitrini pieni di insettacci. La sua vera arma è la concezione della vita sul pianeta, del rapporto tra l’essere umano e le altre specie, la consapevolezza della nostra transitorietà rispetto a ciò che possiamo solo contemplare e che può scrollarci di dosso con facilità. La sua meraviglia per un fossile vivente è anche quella dello spettatore, e sembra di tornare all’epoca in cui la sola visione di un Brachiosauro causava una sindrome di Stendahl.

Terminata l’introduzione, si passa a una sessione marittima che omaggia Jaws in modo spudorato. Va bene, ci sono gli Spinosauri con il design attualizzato e il Mosasauro che salta come una megattera, ma il DNA non è originale, appartiene allo squalone Bruce. Le dinamiche di caccia e pesca, l’avvistamento delle pinne all’orizzonte, perfino il coloring e l’uso della pellicola a 35mm ci riportano alle coste di Amity Island. Quando la barca del capitano Mahershala Ali si accosta al Mosa e i protagonisti sono pronti a sparargli dalla prua, l’impostazione visiva dello shot rimanda a Spielberg quanto le musiche di Alexandre Desplat rimandano a John Williams, e va benissimo. Perdindirindina, ci sono pure le lezioni sui nodi da marinaio! Eccovi Lo squalo attualizzato, grintoso, pronto a scalzarci dal ruolo di Homo Sapiens che si crede dominante solo perché ha saputo costruire qualche gingillo. Poi arriva il naufragio, e con esso una dose massiccia di Jules Verne.

Non ci riferiamo strettamente ai dinosauri, che il grande autore aveva inserito nel suo Viaggio al centro della Terra, quanto de L’isola misteriosa e dell’atmosfera che permea Saint-Hubert: il gruppetto di milizie private e ricercatori (insieme a una famiglia rimasta senza barca a vela) si addentra in un ecosistema titanico, selvaggio, più simile a Isla Sorna che a Isla Nublar per la dispersività dei residui di presenza umana. Panorami mozzafiato e un silenzio quasi mistico tratteggiano un regno dove l’uomo è un estraneo, dove la civilizzazione ha provato ad affondare le radici ma è stata bruscamente respinta da forze ancestrali (va bene, sappiamo della barretta di Snickers, ma per sommi capi Malcolm ha avuto di nuovo ragione). L’esplorazione delle vallate e dei torrenti posa sull’immaginario di Verne e di Indiana Jones alle prese con una caccia al tesoro delle sue, mentre fronteggia bestie pericolose e grotte scolpite dai millenni. Parlando di ispirazione dal passato, impossibile tralasciare Il mondo perduto, quello di Conan Doyle, seminale per lo stesso Crichton. Il nostro quinto senso e mezzo inizia a suggerirci che stiamo assistendo a un’avventura ottocentesca sulla carta e a un action anni’80 sul piano stilistico. Tranquilli, ha anche dei difetti.

Un altro piccolo fulmine ci ha attraversato il cervello riguardo la tripla missione di prelevare del sangue dai maggiori esponenti della fauna insulare: ci hanno ricordato i tre Pokémon leggendari, ma anche quel capolavoro videoludico di Fumito Ueda conosciuto come Shadow of the Colossus. In esso, un guerriero solitario di nome Wander deve attraversare una landa colma di rovine, canyon e foreste per sconfiggere sedici colossi e appropriarsi della loro essenza vitale. Tali creature non sono essenzialmente malvagie e badano a difendere il loro territorio dagli intrusi, proprio come i dinosauri in Rebirth, associati a specifiche aree (nidi, terreni di caccia) alla stregua dei boss di fine livello e poco inclini a procedere oltre. I recinti elettrificati, il cui spegnimento aveva creato caos nel primo film, vengono più volte toccati e attraversati dai protagonisti, perdendo così ogni capacità di delimitazione territoriale e la connotazione simbolica del controllo umano sulla wildlife locale.

Dunque, i colossi. Entità che torreggiano sul giocatore, vecchie quanto le pianure che calpestano, l’incarnazione di ciò che sfugge alla nostra comprensione. Prima ci perdiamo ad ammirarli, poi è il momento di scalarli per estrarne una specie di fuoco prometeico. Dopo ogni scontro rimangono l’adrenalina e la sensazione di aver ucciso qualcosa di bello e di irripetibile. Ora, dalla sua altezza di un metro e un citofono Scarlett non è costretta a scalare i dinosauri (in alcune situazioni poco ci manca) ma le vibes sono esattamente quelle: i Titanosauri in amore, dei giganti fuori scala incorniciati da una valle dove manca solo Piedino (le cui pellicole erano prodotte dalla Amblin); il succitato Mosasauro a metà tra il grande squalo bianco e Moby Dick; il Quetzalcoatlus, che ha nidificato in un tempio costruito da non si sa bene chi. La sequenza dell’arrampicata percorre le impronte di Indy ed è difficile negarlo: il dottor Loomis che solleva un uovo sembra svolgersi in una stanza attigua al prologo di Lost Ark, mentre il rischio di cadere in un crepaccio per afferrare la preziosa fiala richiama il calice di Last Crusade. Ma un fossile resuscitato e letale che si pappa i soldati in un boccone, dimostrandosi il degno inquilino di un’area con quelle architetture e quella palette cromatica, ci ha fatto salire lo Ueda. E se vogliamo essere sinceri, pure i cyber-sauri di Horizon Zero Dawn.

Altro punto di forza di Edwards, oltre alla miscela di cultura pop, è la capacità di imbastire un ritmo che dal momento dello sbarco non conosce cedimenti. La regia inanella una serie sequenze dai toni profondamenti diversi, e li alterna in modo da prendersi una pausa dalle fughe rocambolesche. Ecco che dopo l’approdo sulla spiaggia troviamo una fase esplorativa piena di totaloni che offrono un bel colpo d’occhio; tra il T-Rex sul torrente (una delle migliori sequenze monster degli ultimi anni) e un adolescente “salvato” dai Raptor da un predatore più grosso c’è l’incontro tra la piccola Isabella (Audrina Miranda) e un cucciolo di Aquilops che viene battezzato Dolores. Il rapporto affettivo che si viene a creare con questo incrocio tra Baby Blue, Grogu e Dart di Stranger Things è un ingrediente tipicamente spielberghiano: i bambini, solitamente privi di malizia, hanno un punto di vista privilegiato quando sono messi a confronto con il diverso, alla stregua dell’amicizia tra Elliot ed E.T. l’extraterrestre. Isabella e Dolores non sono separate da chissà quanti sistemi solari ma da milioni di anni di evoluzione, eppure le circostanze della saga giurassica hanno permesso che si realizzasse la singolarità del loro legame.

La dicotomia Dolores/Isabella è inoltre figlia dell’amicone di Spielberg, George Lucas, e del suo universo di Star Wars: la Galassia è costellata di alieni dalle forme e i colori più strani, con i quali i personaggi, specie quelli più giovani, trovano un modo per comunicare e per condividere i sentimenti. Sembrano questioni di poco conto, una parentesi pucciosa per foraggiare il merchandise, ma prendersi cura di questi momenti in un action adventure non è cosa da tutti, e la consistenza dell’atto centrale ne esce rafforzata, insieme al target intergenerazionale: gli adulti del film sono cresciuti in un contesto sociale plasmato dall’eredità di John Hammond, si sono ritrovati degli esemplari nel vialetto di casa o a fargli razzie nel pollaio; i ragazzini sono dei “nativi saureschi” come i nostri nativi digitali, ma devono ancora fare esperienza del mondo, interpretare l’esistenza di questi animali secondo i loro schemi mentali e il loro vissuto, che sono diversi dai nostri. Un passaggio di testimone esteso ai 40enni e 30enni nostalgici che portano figli e fratellini in sala, sperando che si appassionino allo stesso modo. Isabella abbraccia il minisauro, lo porta con sé, raccogliendo e custodendo metaforicamente l’intera saga. Noi siamo ancora qui, e un domani sarà il loro turno.

L’epos spielberghiano trova un’adeguata sponda nel comparto tecnico, con una regia e una fotografia che valorizzano ciò che hanno per le mani: le panoramiche lussureggianti per solleticare i palati, l’utilizzo frequente del crane e delle carrellate in avvicinamento per dare tridimensionalità ai set, e un paio di inquadrature che sono veramente da money shot, ovvero quella manciata di fotogrammi costruiti talmente bene che, quasi da soli, ti portano a casa il prezzo del biglietto. Ne possiamo individuare una nel terzo atto, quello che si basa maggiormente su un certo tizio di nome James Cameron e su un suo sequel con palle d’acciaio intitolato Aliens. I sopravvissuti giungono a una stazione di servizio abbandonata nei pressi del laboratorio, un posto in cui la corrente cerca continuamente di tornare e osserviamo le tracce di quella che poteva essere la vita quotidiana del personale InGen. Balza alla mente la famigerata colonia Hadley’s Hope, e infatti c’è giusto il tempo di replicare la scena dei Raptor in cucina all’interno di un supermarket, prima di infilarsi nei cunicoli in compagnia di Zora Bennett che spara agli ibridi manco fosse la tostissima Vasquez. Nota a margine: forse è la prima volta nella saga che la morte di un dinosauro per i colpi di un’arma da fuoco viene mostrata sullo schermo in modo così diretto. Oh, ve l’avevamo detto di Edwards e del suo debole per i war movie.

Arriva infine quello shot di cui vi abbiamo parlato, che coinvolge il Distortus Rex e il suo ruolo di boss finale: si tratta palesemente di una gestione dell’azione alla Cameron, autore che non c’entra una cippa con il franchise ma che viene preso a modello quando c’è bisogno di coreografare scene fuori scala, nelle quali l’essere umano viene travolto dalla forza della natura (o da un bestione che ne diventa l’araldo). Alla stregua dei disaster movie, con le loro inondazioni e colate di lava, sai che la minaccia riempirà l’inquadratura eppure, fino all’ultimo, non la senti arrivare. Magie della vecchia scuola, ragazzi. L’intera componente action è pensata secondo un ottimo criterio di consequenzialità, facendo sì che scorrano lisce come l’olio quelle dinamiche dove il mostro mangia il primo tizio, il primo tizio molla la corda, il secondo tizio precipita, il terzo tizio interviene, il MacGuffin rimane in bilico, avviene una risoluzione sincretica che nel frattempo ha portato i personaggi nella prossima location. Svolgimento lineare, niente colpi di genio filosofici in bocca agli attori, ma un pregio che per noi è diventato un mantra: poche cose fatte bene.

Accennavamo ai difetti, e infatti siamo lontani da un lungometraggio a prova di bomba: nonostante la penna storica di David Koepp, sembra che da parecchio tempo vi sia una certa difficoltà a costruire dei dialoghi in grado di coinvolgere, ma la colpa può essere dello standard troppo elevato dei botta e risposta che coinvolgevano Malcolm. Questa debolezza della scrittura fa sì che il film sfoggi il suo potenziale solamente dopo il prologo (una sequenza che è l’esatto contrario della logica show, don’t tell) e l’immancabile conoscenza dei protagonisti tramite un momento di briefing; quando si entra nella giungla, l’immagine ha il primato sulla parola. Da lì, il pacing e la qualità generale migliorano costantemente, sebbene l’atto finale sia privo di un vero apice, come il T-Rex che se le dava di santa ragione con i rivali. L’epilogo è adeguato ma poteva beneficiare di un trattamento meno frettoloso, sottraendo magari qualche superflua e poco efficace “ciacola” alla prima parte.

Che dire infine di Scarlett Johansson, nome di peso per il marketing e non altrettanto per l‘economia del cast: Zora ha dalla sua una tostaggine connaturata (in sintesi, non ha bisogno di atteggiarsi) e non sacrifica l’aspetto della sensibilità e dell’empatia che porteranno il suo personaggio a compiere decisioni importanti. I suoi drammi personali e le sue motivazioni rimangono abbozzate nella prima ora e non fanno più capolino, e non si capisce se Edwards fosse interessato solo al minimo sindacale di credibilità prima di togliere la sicura o se la produzione abbia spinto per dei tagli al fattore umano. Inoltre, certi shot evidenziano quanto la nostra amatissima sia tappa mentre corre con l’arma in mano, al punto da far sembrare Tom Cruise una leggenda della pallacanestro. Sapete, è il problema che ha avuto Emilia Clarke quando l’hanno malauguratamente messa a fare Sarah Connor. Ok, chiusa la parentesi body shaming, ci sentiamo di dire che una qualunque altra attrice mediamente brava nei panni di Zora avrebbe offerto lo stesso risultato.

L’avrete capito, non è tutto ambra quel che luccica, e mentre alcune obiezioni ci paiono sensate, altri pareri sentiti in giro si allontano un pelino dal nostro sentire, in primis quelli di chi conosce a memoria l’anatomia delle creature della saga e le vorrebbe raffigurate in modo sempre identico; oppure, finalmente, con le fattezze che rispecchiano le recenti scoperte scientifiche. C’è chi grida allo scandalo perché il suo sauro preferito era assente o ha avuto un minuto di screen time, chi non digerisce per nulla i mutanti (ed è dal 2015 che doveva dare questo filone per scontato). Impossibile accontentare tutti, perciò vale la pena fare delle scelte. Dal punto di vista di chi si è prodigato in questo approfondimento, non c’è stata una Rinascita completa, ma una bella crepa sulla superficie dell’uovo, e speriamo che la formula venga seguita come nel caso di Romulus. Ogni persona cerca qualcosa in un film: noi non cercavamo un best of della paleontologia, cercavamo un bel film di avventura, e ve lo diciamo senza Rancor(e).

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