Da un grande franchise derivano grandi responsabilità.
di Cristina Caleffi
*RECENSIONE SPOILER-FREE*
Dopo aver trascorso un periodo lontano dal quartiere dell’infanzia, può capitare che qualcuno abbia cambiato la serratura, ma c’è sempre un’entrata sul retro, dove va a incastrarsi tutta la narrazione ragnesca che ci ha accompagnato in sala nell’ultimo ventennio. Quando l’Universo Cinematografico Marvel era una chimera, Sam Raimi portava su pellicola uno Spider-Man credibile, avvincente, colmo di momenti sentimentali e di quelle trovate campy che sono il marchio del regista (il quale ha ottenuto un successo clamoroso con la trilogia de La Casa e con la serie su Hercules).
Tobey Maguire era un buon Arrampicamuri e un Peter Parker davvero fessacchiotto (parola di Mary Jane), ma la messa in scena e l’ottimo cast di contorno hanno contribuito a imprimerlo nella nostra memoria di trentenni. È poi arrivato il reboot con Andrew Garfield, fresco del successo di The Social Network: uno Spider-Man ancora più aderente ai fumetti, snello e acrobatico, con un costume all’altezza e la giusta dose di parlantina. Il suo Peter Parker è meno secchione e più alla moda, uno che gira con lo skate mentre costruisce una fantastica alchimia con la Gwen Stacy di Emma Stone.
Entrambe le saghe hanno sofferto della sindrome da sovraccarico di villain, andando incontro al loro tracollo produttivo. Il Venom di Spider-Man 3 è abbozzato quanto l’ammucchiata di energumeni in The Amazing Spider-Man 2, cosa che ha portato a un plot poco coeso, a un ritmo incostante e all’annacquamento della componente drammatica che consideriamo indispensabile per l’Uomo Ragno (la mente deviata dal simbionte per Maguire, la perdita di Gwen per Garfield). Con lo strapotere della Disney sono giunti gli Avengers, capaci di oscurare in qualche anno la popolarità di Spider-Man e di inaugurare l’epoca d’oro dei cinecomic. I vari Thor e Captain America sentono però la necessità di un ulteriore cambio generazionale, del quale Endgame è un coscienzioso apripista: la guerra contro Thanos è finita e alcuni eroi hanno terminato il proprio cammino. Si apre una Fase 4 ben diversa, sia nel modello di business che nel roster di personaggi a disposizione. Serie in streaming e film maggiormente slegati a livello scritturale sono il sintomo di un universo che deve trovare una nuova identità.
Quale identità – anzi, evoluzione – migliore del multiverso? Nei fumetti esiste una moltitudine di realtà parallele e linee temporali, alle quali hanno accesso solo personaggi dalle conoscenze arcane come Doctor Strange. Nascono più versioni di un eroe e, udite udite, ognuna è quella giusta, come ci ha raccontato Into the Spider-Verse: ci sono Arrampicamuri di generi opposti, di un’altra epoca o estrazione sociale, che per un caso fortuito possono finire in un wormhole e parlarsi faccia a faccia. Mettendo da parte le differenze, troviamo in tutte le incarnazioni la scintilla di eroismo e lo spirito di sacrificio che hanno reso iconico il Tessiragnatele. Quando il giovane Tom Holland ha fatto il suo ingresso negli Avengers, ha conquistato subito una parte della nostra redazione, poiché portava alla luce un lato di Spider-Man che non va a confliggere con le performance degli illustri predecessori, bensì ad arricchire il nostro immaginario.
Il Peter Parker di Holland sorvola sulla morte di zio Ben (passaggio cruciale per la crescita del protagonista e per il suo senso dell’etica) e si presenta come un liceale chiacchierone, spericolato, ansioso di mostrare al mondo le sue qualità. La sfumatura ingenua e adolescenziale dell’Arrampicamuri, che abbiamo apprezzato anche nell’universo Ultimate degli anni 2000 e che non si discosta affatto da un supereroe che, a detta dei suoi nemici, “non sta mai zitto”. Esuberante e dalle notevoli doti ginniche, Holland è un buon prototipo di Spider-Man che ha avuto la sfortuna di condividere episodi crossover e solo movie con personalità pesanti come il Tony Stark di Robert Downey Jr. (ennesimo ruolo paterno di riferimento), rischiando di finire all’angolo. Il terzo interprete dell’Uomo Ragno fatica a ritagliarsi uno spazio autonomo e rimane intrappolato in sceneggiature orientate alla teen comedy più innocua che possiate concepire, non all’altezza delle sue potenzialità. Tra un battibecco con Nick Fury e una lavata di capo da Iron-Man non rimane molto tempo per sventare crimini tra i grattacieli della Grande Mela.
Eppure Holland resiste e cresce, aumentando la distanza dalla sua zona di comfort. In questo frangente arriva No Way Home, il capitolo più metacinematografico che mai, in grado di appellarsi alla nostalgia degli spettatori e togliere le ragnatele di dosso ai villain più validi del franchise. Non è un mistero che la parte migliore della trilogia di Raimi fossero gli antagonisti, attoroni del calibro di Alfred Molina e Willem Dafoe. Sul fronte Garfield non erano certo da buttar via il mostruoso Lizard (uno dei nostri prediletti per ovvi motivi) e l’Electro di Jamie Foxx, un certo signor nessuno che ha vinto l’Oscar impersonando Ray Charles e che sa sfruttare il proprio bagaglio di esperienze nelle operazioni più commerciali. Complice lo Strange di Benedict Cumberbatch (che eredita in parte il tutoraggio di Stark), gli universi collassano l’uno sull’altro, portando uno Spider-Man pubblicamente compromesso a confrontarsi con cattivoni che appartengono ai film precedenti. L’obiettivo collaterale è rievocare lo squadrone dei Sinistri Sei, nucleo di arcinemici fumettistici del Tessiragnatele.
È chiaro che la Disney punti a sfruttare il proprio potere contrattuale per vincere facile, ma il ricorso al vecchio cast ha un risvolto intelligente: se un Michael Keaton può dare vita a un grande Avvoltoio, è dura che vi sia un novello Dottor Octopus con la caratura di Molina, perciò è opportuno ripescare una iterazione passata del villain e conferirle un peso inedito nel presente. I cattivi di Maguire e Garfield erano già iconici dal punto di vista del design ma rimangono ancorati a un’altra generazione per quanto riguarda la mentalità.
Su carta sembra uno svantaggio, eppure mettere Holland e soci insieme a delle figure che provengono – letteralmente – da un’altra dimensione permette di inscenare uno scontro di caratteri, che si tratti di scelte difficili o degli scambi umoristici ai quali la Marvel ci ha abituato. Un gigantesco what if si muove sul baratro del pasticcio e invece diventa una fantasia a misura dello spettatore accanito, che si domanda cosa accadrebbe se Doc Ock venisse a contatto con la tecnologia di Stark e quanto impiegherebbe a perdere le staffe di fronte a questo petulante Parker. La cornice è solida, a partire da scene d’azione di prim’ordine per giungere a citazioni dei meme internettari e a una costumistica che si mantiene fedele ove necessario, mentre in certi casi reinventa gli outfit in chiave moderna. Quello tra gli universi è uno scambio reciproco perfino sul piano estetico.
Se questo Spider-Man si trova, suo malgrado, nell’ennesima storia più grande di lui, l’intento è rendere omaggio all’idea che i fan si sono fatti del supereroe, portandolo a misurarsi con il suo patrimonio mitologico: saprà accettare se stesso e i suoi background alternativi? Sarà in grado di influenzare una moltitudine di destini che sono indirettamente connessi al suo? La morale di No Way Home è un po’ come la vita, dove a un certo punto il sentiero si biforca, e qualunque sbocco è sia giusto che sbagliato. A fare la differenza sono le scelte personali e il valore che gli attribuiamo. È proprio il caso di dirlo: tutte le strade portano a casa.
Non perdetevi la videorecensione a cura del nostro Matteo Berta:
4 commenti Aggiungi il tuo