La recensione personalissima e multiversale senza spoiler del ritorno di Sam Raimi.
di Nicola Fasanini
Viviamo in tempi folli. Abbiamo avuto una pandemia, abbiamo una guerra e… un film dell’Universo Marvel che, a conti fatti, ti è piaciuto. Infatti, a te, del MCU non frega il nulla assoluto da parecchio tempo. Anzi, sei sempre stato dell’idea che, per renderli quanto meno accettabili, mancavano giusto una o due comparsate di Boldi e De Sica con la musica di Scatman John. Stavolta però è stato leggermente diverso. Quei terroristi culturali della Disney lo sapevano che, per attirare nelle sale anche gente con un palato un po’ più fino, bisognava evocare il nome di un big boss come Sam Raimi. Ma a livello oggettivo ha funzionato? Scopriamolo insieme, viaggiando in un paio di universi. Iniziamo dall’universo dei “Normaloni“. Quelli che il nome di Raimi hanno iniziato a pronunciarlo da quella cialtronata stratosferica di No Way Home. Quelli che schifavano Drag Me to Hell e che manco sapevano il Maestro avesse le mani in pasta in Xena ed Hercules, per capirci.
Provaci ancora, Sam.
Ecco, viaggiando in questo universo, una recensione si potrebbe fare tranquillamente così: “Sam Raimi, jumpscare, Sam Raimi, wow LSD, hey ma cosa si è fumato Sam Raimi, come è bravo Sam Raimi”. Ecco, ora andiamo in un altro universo. Quello in cui la gente se ne frega di Raimi che torna a fare il cinecomic, ma vuole solo il puro e semplice Sam Raimi. Provate a immaginarvi Samuelone negli anni ’80. Sta per girare il filmazzo della sua vita che lo sbatterà a velocità ultrasonica nell’Olimpo dei registi di fama mondiale. Immaginate che arrivi un produttore a dirgli “Uè capo, beccati ‘sti 300 milioni per il tuo film” et voilà! Avete ottenuto Doctor Strange 2. Purtroppo, però, solo dalla parte registica. Un peccato, se consideriamo che Raimi ha un credito morale nei confronti dei superhero movie: il suo Peter Parker è così significativo da essere richiamato in servizio per dare lezioni a Tom Holland su cosa voglia dire essere Spider-Man.
“E dove sta scritto che è un universo mio?”
Il comparto narrativo è pieno zeppo di situazioni raffazzonate alla bell’e meglio, quasi per giustificare la presenza di certe scene nei trailer. Una sindrome di dipendenza dal paratesto, momenti in cui non sei riuscito a trattenere un “Come, scusi?” ad alta voce, con la coppietta di fianco che ti squadra malissimo. Inizialmente non riesci tanto a spiegartela, questa cosa, ma poi la capisci anche troppo bene. In queste settimane non si è fatto altro che ribadire in migliaia di articoli la “libertà” creativa che è stata data al buon Sam per questo film. La più grande paraculata della storia del mondo (anzi, di milioni di mondi paralleli). Perché sì, puoi avere libertà creativa sulla realizzazione delle scene, sull’impostazione di alcuni effetti speciali, luce e quant’altro, ma se il contenuto in sé (soggetto, sceneggiatura, casting) viene deciso a priori da altra gente, per continuare un teatrino che sta andando avanti da quattordici anni, e per portare alla conclusione di tot serie tv direttamente collegate a un’intera saga cinematografica, come si può parlare di libertà? Piuttosto chiamatela autonomia tecnica.
Il fatto è che uno come Raimi ha necessariamente bisogno di una sua dimensione per lavorare bene. In parole povere, fare VERAMENTE quello che gli pare. Invece qui è stato costretto ad attaccarsi a innumerevoli cicli narrativi sia passati che futuri. Pertanto lo si può tranquillamente definire il finale di stagione di un prodotto televisivo. E questa cosa lascia l’amaro in bocca. Ne lascia davvero tanto. Però, c’è un però. Vedere Raimi fare quello che fa Raimi. Le inquadrature brevissime con la zoomata velocissima; rotazioni convulse a 180°; dei jumpscare (anche se abbastanza soft); i personaggi Marvel che escono direttamente da L’armata delle tenebre e soprattutto… un po’ di sana violenza. Ma quella pesante. Essendo un prodotto Disney è pur sempre trattata come un vedo/non vedo, però santo di quel dio se c’è. Anche perché, tornando a quei dannati trailer, veniva presentato alla stregua di un mezzo horror.
Come ho detto all’inizio, ho visualizzato più di 14 milioni di possibilità, e in buona parte di queste il film ti è piaciuto. Cioè, non a livelli da strapparsi le vesti eh. Però ti sei divertito. Forse perché finalmente hai avuto un lungometraggio Marvel di cui ti è fregato effettivamente vedere quanto fondo si poteva toccare, fin dove si poteva osare. Questa è stata la cosa che, personalmente, mi ha divertito. Qualcuno ha l’occasione di sterzare dalla scena strappalacrime che si conclude con una pernacchia o dal cattivo di turno che scivola sulla buccia di banana. Qui non abbiamo interi dialoghi costruiti per anticipare una freddura, abbiamo gente infilzata sulle cancellate che ti fa l’occhiolino, abbiamo spine dorsali spezzate e un celebre addetto al reparto ferramenta che torna a picchiarsi da solo.
La gag ridiventa visiva, incorporata nella dinamica di una scena, ed è improntata su quel black humor dove puoi ridere sguaiatamente o avere un conato di vomito, mentre il racconto prosegue senza incepparsi. FINALMENTE POCHISSIME BATTUTE STUPIDE! Perdincibacco, Kevin Feige ce l’ha tantissimo con ‘ste battutine che se le facesse un amico per strada lo riempirei di sberle fino alla mattina dopo, ma per fortuna non è successo. Ad arricchire il piatto, le architetture caleidoscopiche ed escheriane che caratterizzavano il primo episodio, gli omaggi alle pellicole di genere come Carrie – Lo sguardo di Satana, creature lovecraftiane che si arrampicano sui palazzi in stile King Kong tentacoluto. Viene sfruttata la complessità strutturale del Multiverso (complesso su carta e semplificato, tramite le fughe concitate, sullo schermo) per bombardarci di easter egg e situazioni dissacranti, eppure la questione è che non posso dire di aver gradito la serata al ristorante solo perché il dessert era buono e il cestello del pane era bello pieno.
Carrie – Lo sguardo di Wanda.
Quindi, in conclusione, questo è un film “da cinema“. Vedetelo in sala. Ha troppe cose che esteticamente possono essere apprezzate solo sul grande schermo; una certa cultura tecnica che dovreste cercare di seguire con occhio vigile per gustarlo come merita. E già che ci siete, dovete avere un’infarinatura di ciò che è successo in WandaVision, a riprova di una serialità da streaming che diventa sempre più influente nelle peripezie cinematografiche degli eroi. Infatti la Scarlet Witch di Elizabeth Olsen si mangia metà del minutaggio (quello non destinato al ciuffo di Benedict Cumberbatch e al soft gore, per intenderci) e rappresenta l’anti-principessa Disney che i sogni son desideri, ma per realizzarli creo degli incubi. Interessante nelle motivazioni, deludente nella risoluzione finale.
Tu sei un mago, Tensing.
Torniamo perciò alle categorie multiversali di spettatore e a quello che cercano in Doctor Strange 2, perché è possibile ideare un bisogno per tutti e non accontentare nessuno. Volevate un excursus allucinato sulla maternità di Wanda? Va bene, partite da Terra-616 e imboccate il primo portale a destra. Volete vedere il life coaching di un protagonista che non si sente felice? Aspettate di incontrare il suo gemello malvagio triocchiuto! Volete conoscere la follia di Samuelone? Fate questo esperimento: alla fine del film, tornate a casa e cacciate su o La Casa 2 (il due, mi raccomando) o Drag Me to Hell. Fatelo. Datemi retta.
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