TERRORE NELLO SPAZIO – A Cinecittà nessuno ti sente ruttare

Lo sci-fi casereccio di Mario Bava e il suo legame con lo Xenomorfo.

di Alessandro Sivieri

Non è il caso, come direbbe il sintetico Ash, di farsi illusioni di moralità: siamo i primi ad avere scarsa fiducia nel cinema nostrano, denigrandolo, sentendocene talvolta imbarazzati. Si citano glorie del passato come Leone e Fellini, comparandole all’attuale tenore produttivo, pilotato da investitori poco propensi ad aprire il portafoglio per qualcosa che esuli da commedie con scambi di persona e drammoni di denuncia sulla Camorra. Un sentimento generale che oscilla tra la rassegnazione e l’insofferenza, un gusto che si fa esterofilo più per sopravvivenza che per snobismo. Siamo davvero messi così male? Ni. Diciamo che qualcosa si muove o che, nell’angolino sperduto di una nave cargo, non ha mai smesso di muoversi, attirando l’attenzione delle masse ed evitando agli stoici di dover scavare a fondo nelle uscite annuali per trovare una pellicola che sperimenti con i generi.

Xenomorfo corridoio nostromo

Proprio “genere” è la parola chiave per gente come Gabriele Mainetti, che ambienta un cinecomic a Tor Bella Monaca e se ne esce qualche tempo dopo con la favola pulp di Freaks Out. Pensiamo a Matteo Rovere e allo spettacolo visivo de Il primo re, a Gabriele Salvatores che già negli anni ’90 tentava un’incursione italica nel cyberpunk con Nirvana. Gli autori conterranei possono e devono confrontarsi con paradigmi che consideriamo commercialmente lontani, perché non solo il risultato può smentire gli scettici ma può portare alla luce idee innovative, fare scuola agli altri paesi, senza perdere la propria identità pizzaemandolino. Lo abbiamo già fatto in settori insospettabili come la fantascienza, quindi torniamo a frugare in quel passato di cui parlavamo all’inizio. Non lo facciamo per l’ossessione del vintage bensì per il maestro Mario Bava, che con una macchina da fumo, due pietroni di cartapesta e qualche rutto sul set è riuscito a ispirare Alien. Sì, quello di Ridley Scott, con lo Xenomorfo cosparso di lubrificante e Sigourney Weaver in mutandine che lo fiocina nel vuoto siderale. Il capolavoro che tanto ci piace (e al quale abbiamo dedicato una caterva di approfondimenti) ha radici creative eterogenee e una di queste affonda nei meandri di Cinecittà.

mario bava regista

Non credo vi sia sfuggita la parola “rutto” e, in effetti, si riferisce a un aneddoto trovato sul Web che speriamo sia reale. DEVE essere reale. A quanto pare Lamberto Bava, figlio di Mario e aiuto regista per il film, racconta della fastidiosa abitudine dell’attore protagonista Barry Sullivan di ruttare sul set. I suoni di approvazione per il cibo ingerito davano fastidio alla troupe e, a un certo punto, Bava Senior decise di gestire la situazione a modo suo: andò da Sullivan ed emise un rutto dalla potenza inaudita, come in un duello tra cavernicoli. L’attore ne rimase intimidito e, da quel giorno, non si udirono più versi sgradevoli. Ecco l’emblema di un talento che va oltre le capacità direttive e scenografiche, ovvero lo spirito di adattamento, di affrontare i problemi in modo pragmatico. Regista e interprete hanno risolto lo screzio da gentiluomini. Anzi, da canuomini.

rutto space balls

“Io… Rutto.”

“Veramente non mi sembra il caso.”

Le dicerie si ingigantiscono, passando di bocca in bocca, e una escalation ruttofona nel pieno della lavorazione è da prendere con le pinze, eppure questo siparietto burino riassume la poetica surreale di ritrovarsi in Italia a orchestrare un tale B-movie. È sotto gli occhi di tutti che Terrore nello spazio sia stato fatto con due lire, sia inusuale, sia pacchiano e misteriosamente irresistibile. L’intera filmografia di Bava non ha goduto di ingenti mezzi ma ha influenzato profondamente autori successivi come Dario Argento, Joe Dante, Tim Burton e Quentin Tarantino, che per il suo esordio cinematografico con Reservoir Dogs prenderà spunto dal baviano Cani arrabbiati, precursore del cinema pulp. Reazione a catena, con la sua ambientazione lacustre e gli omicidi efferati, è invece un tassello fondamentale per gli slasher anni ’80 e per la saga di Venerdì 13 in particolare.

la maschera del demonio

Perfino il danese Nicolas Winding Refn si è prodigato in lodi per l’autore italico, essendo un estimatore delle saturazioni cromatiche che compaiono in diverse opere di Bava, tra le quali figura proprio Terrore nello spazio. Certo, Refn è daltonico e ha un conto in sospeso con i mezzi toni, ma questo non toglie nulla a un uso espressivo dei colori che sottolinea la violenza, le emozioni o la superficie di un pianeta alieno. Se non volessimo calcolare il rosso, il blu e il verde, ricordiamo che il Maestro spacca anche in bianco e nero: La maschera del demonio, horror con l’affascinante Barbara Steele, è considerato l’emblema del gotico italiano, la rampa di lancio di un esordiente Bava che si impose come mago dei trucchi a basso costo, amante dei piani sequenza e raffinato scenografo. All’epoca aveva già vent’anni di gavetta come direttore della fotografia. Insomma, più che da ruttare, ci sarebbe da sbavare.

terrore nello spazio poster americano

La versione della pellicola destinata al mercato statunitense – e distribuita dalla American International Pictures – venne chiamata Planet of the Vampires, con tanto di poster evocativo dove un gruppo di astronauti è intento a fronteggiare dei vampironi scheletrici a colpi di fucili laser; un prototipo della casistica Quando lo ordini su WISH – Quando ti arriva a casa. Non ci sono mostri giganti nel film di Bava, o forse c’erano e adesso sono stecchiti da un millenni. A dominare è una minaccia più suggerita che mostrata, un senso di malsano che si insinua sotto la pelle non appena mettiamo piede sul pianeta roccioso Aura. La premessa si basa sul racconto Una notte di 21 ore di Renato Pestriniero e sugli sci-fi d’oltreoceano come La Cosa da un altro mondo: le navi gemelle Galliot e Argos, in viaggio nello Spazio profondo, ricevono una richiesta di soccorso da un pianeta in apparenza disabitato. Durante l’atterraggio i membri dell’equipaggio dell’Argos vengono posseduti da una forza sconosciuta che li spinge ad aggredirsi a vicenda. Il capitano Markary (Sullivan) riesce a destare i propri sottoposti dalla violenta ipnosi e si avventura in superficie per rintracciare l’altro vascello.

terrore nello spazio equipaggio protagonisti

Sul mondo roccioso hanno luogo strane apparizioni e la Galliot, purtroppo, è stata colta dalla medesima isteria, con membri della ciurma che muoiono per poi ridestarsi in uno stato di trance, pronti a uccidere gli ex-colleghi. Come se non bastasse viene ritrovato un relitto alieno dove sono custoditi i fossili di un’antica civiltà. Il colpo di scena vede Markary e una manciata di superstiti alle prese con una specie di parassita che infetta gli organismi umani nel tentativo di far rivivere il popolo originario di Aura, sulla falsariga de L’invasione degli ultracorpi. L’obiettivo della colonizzazione è, naturalmente, la lontana e arretrata Terra.

terrore nello spazio fucili laser

L’intreccio fa ricorso a un espediente letterario ancor prima che filmico, quello del viaggio misterioso in risposta a una chiamata o a un segnale d’emergenza. La meta è normalmente una nave sperduta o un insediamento alleato, lo specchietto per le allodole utilizzato da un’entità estranea che ha l’intenzione di rivelarsi solo al momento opportuno (ovvero quando è troppo tardi per i protagonisti). La traversata, manco a dirlo, è corredata da visioni terrificanti e sensazioni opprimenti che anticipano l’imminente tragedia. Questo topos si è insidiato negli angoli più remoti della fiction: si parte dalla caccia al signor Kurtz in Cuore di tenebra per giungere a Stanislaw Lem con Solaris e L’Invincibile (datato 1964, questo romanzo parla proprio di due navi gemelle e di un pianeta deserto) e alla dimensione cinematografica, dove gli esempi si sprecano. Impossibile non citare La Cosa di John Carpenter (già debitrice verso la produzione di Howard Hawks), Fantasmi da Marte, Space Vampires di Tobe Hooper, Atmosfera zero, Punto di non ritorno, Sunshine, Ad Astra… ce n’è per tutti i gusti in fatto di scoperte fantascientifiche che ci pongono di fronte ai nostri demoni. Che poi il demone sia una creatura schifosa è una delle tante eventualità; un’eventualità della quale si è occupato… lo sceneggiatore Dan O’Bannon.

terrore nello spazio navicella

Oh, bello questo bioma di No Man’s Sky.

Pare che la Argos e la Galliot siano atterrate senza la terza caravella, che approderà quasi quindici anni dopo: la Nostromo, guscio metallico di un equipaggio di camionisti malmostosi. Il soggetto di Terrore nello spazio contribuisce in modo fondamentale all’immaginario filmico che Alien riuscirà a riproporre in forma perfetta, per non parlare di una particolare sequenza dove i protagonisti si introducono nei resti di un’astronave aliena rimasta lì da chissà quanto, scoprendo una serie di macchinari sconosciuti e… uno Space Jockey. Sì, lo scheletrone di un marziano ricoperto di materiale plasticoso (tipo quel filetto di platessa abbandonato nel freezer da eoni), alla cui realizzazione contribuì Carlo Rambaldi nel ruolo di model maker.

terrore nello spazio scheletro del relitto

Ora, possiamo evocare all’infinito Il mostro dell’astronave o Il pianeta proibito, ma non potete convincermi che O’Bannon, Scott e soci non si siano guardati almeno la scena dello scheletrone e quella del velivolo che giace in mezzo ai canyon. Si tratta di una intuizione seminale per le peripezie xenomorfiche, unitamente al fastidioso e indecifrabile radiomessaggio che viene riprodotto dagli astronauti mentre toccacciano i comandi del relitto. Il risultato complessivo è di un kitsch notevole, lontano dal tocco calibrato che muove i fili di Alien, ma i tempi non erano maturi e mancava il denaro. Se l’eccellenza formale rimane una chimera, a portare il terrore in questo spazio è un’onnipresente sensazione di mistero. Grazie a fumo, cellophane e cartapesta. Anche questa è arte, l’arte di arrangiarsi.

Bava era il Michelangelo dell’arte di arrangiarsi.

I produttori di Cinecittà avevano scarsa fiducia nelle iniziative fantascientifiche, eppure Mario il Ruttatore non si perse d’animo e utilizzò tutto quello sui poteva mettere le mani in un teatro di posa: miniature, immagini riflesse tramite un gioco di specchi, rocce riciclate da Ercole al centro della Terra, polenta per simulare la lava incandescente e tanto fumo, quella cortina colorata che avrà procurato un orgasmo a Refn. Il limite alla visione di Bava era un fondale dipinto che, per quanto pregevole, non poteva restituire la vastità desolata del pianeta Aura. I banchi di nebbia, coadiuvati dalla profondità di campo, servono proprio a celare il riciclo di oggetti e pannelli che si frappongono tra noi e la linea dell’orizzonte, inquadratura dopo inquadratura.

terrore nello spazio sfondo

Le soluzioni artigianali vanno oltre lo scopo prefissato, regalandoci un’esperienza sensoriale d’avanguardia, un’opera espressionista che diventa credibile grazie a un design sopra le righe. Le fonti di luce sono innaturali, la palette cromatica si amalgama con esiti da viaggio psichedelico. I parole povere è un mondo trascendentale, sinistro, dove l’indugiare della cinepresa sui panorami silenziosi rende l’intreccio imprevedibile, ci trasmette uno stato di stagnazione solo apparente, perché qualcuno o qualcosa aspettava soltanto l’arrivo di una ciurma di pirla vestiti da sommozzatori. Forse l’abito non fa il monaco, il casco da motociclista non fa l’astronauta, ma un paio di pietre e della polenta fanno un planetoide alieno.

terrore nello spazio zombie

Gli interni asettici colpiscono meno delle lande nebbiose ma Bava, per nulla intimorito, percorre le plancia delle astronavi con dei piani sequenza. Le carrellate lente sono un atto di coraggio quando il set è tenuto insieme dallo sputo e da lucine del flipper, eppure la fotografia di Antonio Rinaldi scandaglia tutto meticolosamente mentre i protagonisti, capendo a malapena la lingua altrui, recitano battute in salsa sci-fi. Eh sì, tra brasiliane stralunate e americani che digeriscono ad alta voce, Marione riesce a cavare il sangue dalle rape, complice il doppiaggio. La sceneggiatura in sé non brilla di intelligenza (si discute di bislacche unità di misura e apparecchi futuristici) ed è transitata su parecchie scrivanie prima di finire in mano a Bava. Il plot twist dell’epilogo aggiunge un tocco di cinismo in grado di ripagare il disorientamento dello script, avvertibile fin dai momenti iniziali, anche se l’intera storia si presta a metafore sociali stuzzicanti.

terrore nello spazio cadavere

Vengono sfiorati temi che anticipano la fortunata era degli zombie movie di George Romero, come l’omologazione dell’uomo moderno, svuotato della sua individualità e risorto come un doppelgänger fratricida, la marionetta di un dominio estraneo. Eravamo nel pieno della Guerra Fredda e dietro ogni Ultracorpo c’era un allegro sovietico, o al limite un consumista sfrenato. Le salme possedute emergono dalle tombe e si liberano dalle confezioni alla stregua di un prodotto scaduto del supermercato, perciò è palese che Bava abbia fornito un assist a Dawn of the Dead. L’ipotesi non vi convince? Allora diciamo che realizzare i vampironi del poster costava troppo. Perché vorrei vedere voi alle prese con la polenta, Barry Sullivan e due cazzodipietre. Ecco. 

La science-fiction diventa un prototipo degli zombie movie.

Alla mescolanza di prop caserecci e barriere idiomatiche nel cast fa eco una ibridazione stilistica, tramite un incipit da space opera che balla la mazurka con un mood orrorifico (quasi paranormale nelle visioni mistiche delle croci) e con le sequenze zombesche appena menzionate. La parte più suggestiva, secondo i gusti del sottoscritto, rimane l’ingresso nel relitto: l’impronta estetica del regista ha modo di scatenarsi e di giocare con le forme geometriche elementari, creando architetture distorte, prive di senso per chiunque non sia già stato in ferie su Aura e decorate da macchie cromatiche così accese da farci dubitare del risotto ai funghi consumato a pranzo.

terrore nello spazio tunnel nave

Cono stradale alieno sulla destra.

Ricordiamo ancora gli extraterrestri fossilizzati e la loro stazza inumana; non si sa da quanto siano morti o cosa li abbia uccisi, magari hanno avuto soltanto un collasso nella sala fumatori, e intanto i loro cugini Ingegneri giungevano su LV-426. Gli effetti sonori non sfigurerebbero in una sala giochi, i coni fluorescenti lampeggiano, eppure questa commistione di elementi funziona e non vuoi nemmeno saperne il motivo. Sono Mario Bava, ti spaccio gli alieni ma resto umile. Questo cocktail di fantascienza all’italiana non è solo una fucina di intuizioni in technicolor; dimostra al pubblico internazionale che l’ingegno senza la paura di toppare alla grande può elevare un B-movie oltre le più rosee aspettative. Siate fieri di aver ottenuto un Warhol quando tutti sono abituati a Caravaggio; non è di minor valore, ha semplicemente un diverso modo di esprimersi. Se invece discutessimo di valore pecuniario, beh, nella Settima arte gli spiccioli fanno comodo anche ai campioni di austerità, perciò rimane un piccolo dubbio, nascosto sotto uno di quei massi sottratti ai peplum: senza la polenta e con qualche dollaro in più, Bava avrebbe fatto un film più bello o più brutto?

terrore nello spazio scheletro alieno

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