Paul Atreides alza la voce e inaugura la caccia al pelato.
di Alessandro Sivieri

Gentili capitalisti spaziali, vi diamo il benvenuto su Arrakis per una lisergica scampagnata nel deserto. Non c’è molto sulla superficie del pianeta, a parte la sabbia che vi fa sballare e le esche giganormi che faranno la gioia di chi la domenica va a pescare trote nei laghetti artificiali. E allora che ci andiamo a fare su ‘sta palla rovente? Ecco, in mezzo a quelle lande riarse giace la Spezia, chiamata anche Melange. Nell’universo di Dune, la Spezia è il motore dell’economia galattica, una risorsa così preziosa e riverita che l’oro e lo zafferano possono andare a nascondersi. Per qual motivo? Insaporisce le scaloppine? No, diciamo che ha gli effetti dell’LSD se vi fosse donato da Zeus in persona, oltre a espandere il limite delle capacità cognitive umane, cosa della quale c’è un estremo bisogno. In seguito a una rivolta generale contro le macchine pensanti, l’intelligenza artificiale è stata abolita, portando i viaggiatori interstellari a fare affidamento a piloti che si sballano con la Spezia e tracciano le rotte senza incappare in asteroidi o buchi neri.

In tale frangente torna comoda una facoltà di calcolo innaturale, unita a un pizzico di premonizione. Questo è il potere della Spezia (e ve lo diciamo senza freddure sulla città ligure). Bene, dato che la Spezia si trova solo su Arrakis, è naturale che le grandi casate nobiliari dell’Imperium si contendano l’esclusiva. Un momento, qui si viaggia tra le stelle e parliamo di casate? Surprise, motherfuckers! Pare che l’avanzamento tecnologico non abbia impedito il ritorno di certe caratteristiche di secoli passati, in primis un sano sistema feudale, con tanto di baroni, duchi e caste sacerdotali. Vi sono rigidi protocolli da rispettare, gilde con cui interloquire, mentre legioni di combattenti fanatici vengono indottrinate per difendere il legittimo sovrano fino alla morte; una morte che avviene più che altro dopo uno scontro all’arma bianca, dato che l’introduzione degli scudi personali ha reso controproducente l’uso di laser e proiettili. In tutto questo caos, antico e futuribile al tempo stesso, si narra la profezia di un Prescelto che si porrà alla guida dei Fremen (i fieri nativi di Arrakis) e scatenerà una guerra santa, sconvolgendo l’ordine costituito. Niente male, eh? Non meravigliatevi se George Lucas si è fatto un segone a due mani su queste premesse e ha ideato Star Wars.

La saga di Frank Herbert, iniziata nel 1965, offre degli spunti che fanno tesoro del famigerato schema del Viaggio dell’Eroe (teorizzato da Joseph Campbell) e di riferimenti alle principali religioni abramitiche: la dimensione quotidiana del rito, la fede cieca in un Messia, il deserto come luogo metafisico dove il protagonista incontra un mentore, affronta una serie di prove e ha delle rivelazioni. Facile tracciare il parallelo con l’epopea di Luke Skywalker, sebbene il Paul Atreides di questa seconda parte abbia un’evoluzione più prossima ad Anakin, ma di questo discutiamo dopo. Torniamo al fatto che senza Dune non ci sarebbe Star Wars come lo intendiamo oggi, seguito da tonnellate di universi sci-fi; così a naso ci vengono in mente Warhammer 40K e BattleTech (dove troviamo dinastie nobili che si mazziano a suon di mecha).

Un adattamento dei romanzi è stato giudicato a lungo infilmabile. Un monumentale tentativo di portarlo sul grande schermo fu quello del visionario Alejandro Jodorowsky, il quale si prefiggeva di surclassare qualunque opera sci-fi uscita fino a quel periodo; si vociferava di budget astronomici, di artisti della caratura di Moebius, dei Pink Floyd, di Salvador Dalì e di Orson Wells; di una sequenza di apertura che contenesse il miglior piano sequenza mai visto al cinema. Il progetto naufragò sotto il peso delle sue ambizioni e dal suo travaglio produttivo nacquero documentari come Jodorowsky’s Dune di Frank Pavich e un caso eclatante come l’asta dello storyboard originale del film, venduto per circa 2,7 milioni di euro. Il pallino è passato a un David Lynch alle prime armi: reduce dal successo di The Elephant Man, il regista non si era mai confrontato con un lavoro di dimensioni faraoniche e il produttore Dino De Laurentiis non gli semplificò di certo la vita. Anzi, Lynch ricevette un battesimo del fuoco simile a quello di David Fincher per Alien 3, costellato di difficoltà e bastoni tra le ruote, al punto da rinnegare la paternità della theatrical cut uscita nelle sale.

Proprio dalla saga di Alien questo primo Dune eredita alcuni aspetti artistici, come una quota di scenografie e costumi chiaramente ispirati all’artista svizzero H.R. Giger e l’intervento di Carlo Rambaldi per gli effetti speciali. Nonostante la bontà della fattura, il lancio non ebbe il successo sperato e la pellicola si rivelò un flop, guadagnando solo nei decenni successivi lo stato di cult. Sorvolando sulla miniserie del 2000, questo pilastro della fantascienza era rimasto un terreno inospitale per i fabbricanti di sogni hollywoodiani, specie se pensiamo alla magnificenza visiva comunicata dalle pagine di Herbert: la scala smisurata delle battaglie su Arrakis e delle casate che formano l’Imperium è imprescindibile per chiunque voglia rimanere un pelo fedele alle atmosfere del libro.

Brace yourselves, summer is coming!
“Infilmabile!”, ripeteranno alcuni. “Rischioso!”, diranno altri. “Perché fare Luke Skywalker a cavallo dei Graboid?”, si chiederà infine chi è a digiuno dell’esalogia letteraria. Per portare a casa la partita serviva un player con tanto pelo sullo stomaco e una buona capacità di attrarre capitali per il progetto. Il prescelto è stato Denis Villeneuve, che detto in soldoni èmmoltobbravo. Regista canadese relativamente giovane, lavora da dieci anni con attori di serie A e ha messo in chiaro fin dall’inizio le sue attitudini e le tematiche predilette: gli abissi della disperazione (Prisoners), l’introspezione psicologica di personaggi imperfetti e la ricaduta collettiva delle scelte dell’individuo. Se scorrete il suo curriculum noterete un certo occhio per la fantascienza, che si tratti di azzeccare un sequel contro ogni previsione (Blade Runner 2049) o di lasciare il segno nel genere al pari dei migliori Nolan e Zemeckis (Arrival). Bene, il tizio ha le palle e tutti hanno iniziato a pensare che potesse farcela. In effetti, con la Parte I ce l’ha fatta.

La prima mossa vincente di Villeneuve è stata il tono austero dello script (redatto con Jon Spaihts ed Eric Roth), da non confondere con la pallosità. In parole povere, i personaggi si prendono dannatamente sul serio e gli scambi di battute non mirano alla costruzione artificiosa di freddure o momenti di leggerezza, tendenza che ultimamente serpeggia anche in questo genere e che talvolta porta all’indebolimento forzato della tensione drammatica. Quello di Dune è un mondo futuristico, adulto, credibile. Lo stesso Paul, pur se giovane, dimostra maturità nel riflettere sulla propria condizione e sui rapporti interpersonali. Gli attimi che strappano un sorriso si contano sulle dita di un mutilato e hanno più a che fare con il volto burbero di Josh Brolin o con le sparate a bruciapelo di Jason Momoa che commenta la prestanza fisica altrui.

Il secondo colpo di genio è prendere Timothée Chalamet e calarlo nei panni di Paul Atreides. L’attore canadese è talentuoso e su questo c’è poco da dire. Perfino quando la regia cazzeggia, come nel caso di Wonka, Timoteo riesce a portare a casa una buona performance, e qui brilla come erede di una prestigiosa casata che si avvia verso un futuro più grande di lui, un destino epico e tragico. Perfetto, non c’è che dire. Paul inizia come quel tipo di ragazzo che grida “sangue blu” da un miglio di distanza, è raffinato nei modi e coccolato dalla famiglia, ma presto deve scontrarsi con una realtà dura, fatta di tradimenti, morte e vendetta, fino a prendere quella piega che possiamo osservare in questa Parte II e che non è per nulla positiva. Nel secondo film emerge lentamente il Muad’dib che alberga in Paul, e Chalamet ha la tanto attesa occasione di alzare la voce, di scatenarsi, di guidare un popolo al massacro dei nemici sbraitando profezie e abbandonandosi al delirio di onnipotenza, perché è questa la natura di Paul Atreides: un Messia che diventa cinico e oscuro, uno che si fa travolgere dal suo fato. Non c’è scritto da nessuna parte che per essere il prescelto un tizio debba mostrarsi gentile e compassionevole, e questo lo diceva già Herbert. Paul è un pezzodemmerda, uno stronzetto accecato dalla rabbia, e il regista lo sa bene.

La cannonata finale è la scala mastodontica di architetture e delle forze in campo: alle distese di Arrakis e alle maree di Caladan si contrappongono edifici monumentali e astronavi dalle fattezze non convenzionali, roba che fa sembrare ragionevoli le mezze uova di Pasqua di Arrival. La fotografia di Greig Fraser (già apprezzata nell’ultimo Batman) contribuisce a creare un’esperienza immersiva grazie ai giochi di luce, a una composizione pulita dell’immagine e a una coerenza tonale che ci aiuta a distinguere sia il background culturale dei personaggi che le atmosfere dei pianeti. Le poche scene concitate – assalto degli Harkonnen, crociate sognate a occhi aperti, incontri ravvicinati con vermoni – hanno un grado di spazialità paragonabile a quel Signore degli Anelli che viene tirato spesso in ballo quando discutiamo di epica cinematografica contemporanea, e ci danno un’idea delle potenzialità della saga. L’epilogo della Parte I metteva sul piatto un sacco di elementi, spendeva tempo a fare world building e ci diceva che Paul, completato il tutorial, aveva sbloccato l’intera mappa di gioco ed era pronto a prendere in mano la situazione. Dunque, è tempo di raccogliere i frutti e Villeneuve non si tira indietro.

Ritroviamo così Paul intento a diventare un fratello dei Fremen dopo essersi salvato, insieme alla madre, dalle truppe spaccaculi assoldate dal barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård). Il protagonista non è più un ragazzino, ha ucciso una persona in duello ed è stato accettato nelle fila del popolo del deserto. Ma non del tutto. Deve prima fare un pellegrinaggio nelle vallate. Poi cavalcare un vermone anziano, il celeberrimo Shai-Hulud, che non si fa manovrare facilmente (e non si capisce bene come faccia a frenare una volta che Paul lo spinge a velocità folli). Ecco, per la scampagnata viene aiutato da Zendaya, che si invaghisce di lui ma fatica ad ammetterlo. Per quanto riguarda il surf con l’esca, siamo al cospetto di una sequenza coi fiocchi, nella quale ogni scelta visiva è portata a far sembrare Paul un piccolo alpinista appeso a una montagna semovente, con tanto di camera-car convertita per l’occasione a camera-worm. Sembra quasi di sentire le sferzate di sabbia in faccia mentre il protagonista sale in groppa alla bestia e impressiona gli astanti, piantando ancora più saldamente il seme della profezia che lo riguarda: Paul Atreides, lo straniero venuto da lontano, il ragazzino imberbe, è il Prescelto, il liberatore di Arrakis che riporterà il verde per le strade e arginerà l’effetto serra.

Stilgar che osserva il tuo parcheggio a S.
Suo principale sostenitore è il capotribù Stilgar (Javier Bardem), convinto di aver trovato nel giovane Atreides il Lisan al-Gaib, colui che li guiderà in battaglia. Paul smonta la tenda, Lisan al-Gaib! Paul tira un rutto più forte del normale, Lisan al-Gaib! Che poi il nome da Fremen di Paul sarebbe Usul, mentre lui decide di chiamarsi Muad’dib, come il toporagno del deserto, ed è un appellativo carico di significato. Ebbene, Paul ha molti nomi e possiamo solo immaginare il suo codice fiscale, ma la chiave è ciò lui che rappresenta per le povere genti Fremen: il culto di Paul spacca in due la popolazione locale, divisa tra gli scettici del Nord (mostrati perlopiù tramite Chani-Zendaya) e i fondamentalisti del Sud, che si prodigano in preghiere e affilano le lame in attesa di cacciare gli invasori. Paul non sa bene cosa pensare della profezia e nega di essere un salvatore, eppure i sogni lo tormentano e il desiderio di vendicare suo padre si fa ardente, non importa quanto le scappatelle con Zendaya possano fargli apprezzare il panorama. Intanto, nell’ombra, sua madre soffia sul fuoco.

Lady Jessica, una Rebecca Ferguson con lo sguardo psycho, è incinta di una bambina ed è intenzionata a fare proselitismo in favore del figlio Paul, diventando nel frattempo la nuova Reverenda Madre dei Fremen. La potente strega, che ha la faccia scarabocchiata e parla coi feti, tesse una trama tutta sua per il dominio della Galassia e comprende benissimo come la religione sia il Melange dei popoli: più la società è oppressa e impaurita, più accetterà di buon grado una figura forte e portatrice di promesse. Lo script racconta nei particolari l’ascesa di Paul, ponendosi come una critica alle tecniche di controllo delle masse e ai regimi guerrafondai, poco importa se nascenti o millenari. Paul ha paura di perdere ciò che ama, ha visioni oniriche della sorella minore e parte a tutta birra per una degenerazione alla Anakin Skywalker, alimentandosi del suo stesso mito. Un sorso di piscio di verme (l’Acqua della Vita) gli permette di risorgere dopo un rischio di decesso per avvelenamento (evitato da Chani grazie a una rielaborazione del canovaccio shakespeariano) e di sbloccare appieno il suo potenziale. Alé, bacio velenoso alla Romeo & Giulietta più resurrezione cristologica!

Nel terzo atto sorge finalmente il Lisan al-Gaib e Timothée Chalamet grida, cambia postura e camminata, spazza via ogni ostacolo e sembra non volersi fermare, preda di un effetto valanga che gli ottenebra la mente. L’assenza di scrupoli lo allontanerà dall’amore di Chani e lo renderà piuttosto simile ai suoi nemici giurati, ovvero gli Harkonnen. Chiusi nelle loro roccaforti industriali, i pelati pallidi sono preoccupati dalle voci sul Muad-dib. Il barone è particolarmente scontento del nipote Rabban (Dave Bautista che sbraita dopo essersi calato dieci Red Bull) e mette in campo il suo prediletto, Feyd-Rautha, quello che nel film degli anni ’80 era Sting. Il rampollo ha il volto di Austin Butler, salito alla ribalta per la sua prova in Elvis, e si carica sulle spalle il peso della nemesi che deve lasciare il segno senza rompere troppo le palle nel corso degli eventi. Se ne sono sentite di tutti i colori sulla performance di Butler: è il nuovo Joker, è il nuovo Gary Oldman, è lo stracazzo di cattivo più di figo del decennio. La verità è che si tratta di un buon villain che fa il possibile con il minutaggio a disposizione, stentando a porsi come minaccia concreta nei confronti di un prodigio della natura come il Muad’dib.

Intendiamoci, Austin Butler ha studiato, si è addestrato con un Navy Seal, ha osservato il body language dei predatori (soprattutto dei rettili) per dare vita a un antagonista che risultasse letale, inumano, seducente. La sua rissa di compleanno nell’arena di Giedi Prime è un tripudio di efferatezza, di geometrie ciclopiche, e gli consente di dimostrare una volta per tutte quanto i calvi siano cazzuti. Certo, gli espedienti narrativi hanno alterne fortune e lo squartamento delle ancelle solo per testare la fattura di un pugnale non è l’invenzione del secolo; sorvoliamo pure sulla tortura di un ostaggio brandendo l’aspirapolvere. Le scene che fanno paura sono altre e si celano nei dettagli: lo sguardo di Feyd-Rautha quando un suo parente viene ammazzato non è di affetto o compassione, è di ammirazione, quasi di eccitazione nei riguardi dell’assassino. Il baronetto non è pericoloso per la sua abilità nell’uccidere, è pericoloso perché vive per lo scontro e non teme alcuna conseguenza. L’unica sua vulnerabilità è quella sessuale nei confronti di Léa Seydoux, e chi potrebbe biasimarlo? It’s Gom Jabbar time, baby!

L’attrice francese fa poco più di un cammeo ma ci ricorda che gli intrighi di Dune sono guidati dalle donne, o meglio dalle Bene Gesserit, che selezionano nuovi burattini da manovrare e intessono trame così complesse da scavalcare in un soffio l’esigua durata di una singola vita umana. Contrapposta alla setta stregonesca c’è Lady Jessica, che è cresciuta al suo interno e ne ha ereditato la freddezza oltre ai poteri occulti. Non pervenuta la famiglia imperiale, in primis l’Imperatore Padishah Shaddam IV della casa Corrino (insomma, anche lui ha molti nomi), per il quale hanno preso un mostro come Christopher Walken chiedendogli di sedere sul trono a rincoglionirsi. Sua figlia, la principessa Irulan, è nientedimeno che Florence Pugh, che alza ulteriormente il livello di grazie femminili nella pellicola senza avere l’occasione di imprimersi negli spettatori. Istruita dalle Bene Gesserit, sarà una merce di scambio reale per il Muad’dib pur di salvare il padre rachitico dalla tremenda vendetta. Nota di merito per l’abbigliamento, cioè una cotta di maglia in stile Giovanna d’Arco dopo uno shopping da Dolce & Gabbana.

“Reggimelo un attimo… ok, hai finito.”
Come sbrogliare la matassa di questo dittico – o in attesa della terza parte Dune: Messiah – senza buscarsi una congiuntivite blu agli occhi? Sulla raffinatezza abbiamo già discusso e sicuramente sono presenti numerose sequenze, come la lenta arrampicata antigravitazionale delle truppe Harkonnen, in grado di farci pensare “Ok, l’asticella si sta alzando”. Un blockbuster che abbia anche un punto di vista non è da prendere sottogamba, giusto? Le battaglie campali fanno eco, ancora una volta, a una mega-zuffa nel Pelennor o davanti all’esercito di Mordor, più per la portata e gli scopi delle forze in campo che per un sentimento legato ai protagonisti che, per quanto personalmente coinvolti nelle vicende, rimangono distaccati, maturi, perché la filosofia di Dune è la volatilità delle pedine sulla scacchiera universale. Ok la guerra santa, ok la cavalcata dei vermoni e l’agognata resa dei conti, ma la regia è così impegnata nell’ostica esegesi herbertiana da sfiorare un approccio meramente descrittivo. È labile il confine tra il “te lo sto raccontando” e il “te lo sto facendo vivere”, e se non fosse per le cocenti delusioni provate da Chani (il punto di contatto più umano per il pubblico) e il costante impegno di Paul-Usul-Muad’dib-Lisan-al-checcazzohatantinomi, in alcuni frangenti ci si sentirebbe in dovere di assistere a uno spettacolo magnificamente eseguito piuttosto che lascarsi risucchiare da una storia senza tempo.

Personaggi sviluppati nella prima parte come il barone Harkonnen, i suoi sgherri o il menestrello Josh Brolin si schiantano contro un muro per cedere il passo all’introduzione di volti inediti, i quali non trovano lo spazio per legarsi a noi visceralmente, tanta è l’urgenza di illustrarci gli obiettivi di ogni fazione e affrontare la questione della propaganda manipolatrice. Nemmeno i Sardaukar, così temibili durante lo sterminio degli Atreides, vengono risparmiati dall’epurazione del carisma. Il risultato non è un film di personaggi ma di questioni, non un Ritorno del re e nemmeno un paio di torri con cavalcate di Eorlingas che le aspettative della stampa hanno così disperatamente invocato. Gli abbagli della Spezia, è necessario dirlo, ci avevano abituato troppo bene nel capitolo precedente, perciò la grandeur visiva non ha il medesimo impatto e rimane fedele a se stessa; idem per i silenzi mistici in contemplazione dei panorami e per il tappetone sonoro del maestro Hans Zimmer, che compie un lavoro di fino su Chani. Dune: Parte II è un piacere per gli occhi e il palato, una ricetta collaudata che ha il doppio da raccontare rispetto a Parte I ma scorre con maggiore difficoltà, come se si affrontasse allo specchio. Al netto di questa crociata senza vincitori morali, ti sei battuto bene, Villeneuve.

Una recensione fenomenale, davvero complimenti!
Due appunti: il primo è che la spezia per insaporire le scaloppine secondo me batte a mani basse l’LSD; il secondo è l’accenno alla scena di Brian di Nazareth dei Monty Python sull’umiltà del Messia, e niente mi toglie dalla testa che sia un accenno VOLUTO.
Per altre ricette etniche di Brian di Caladan, continuate a seguirci! In omaggio uno shottino di acquaverme!
Con quel bel blu acceso, sai che cocktail spettacolari?