X: A SEXY HORROR STORY – La scappatella in camporella

Le ri-produzioni indipendenti nella fattoria e l’ira funesta della menopausa.

di Alessandro Sivieri

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State buoni, se potete… ma tanto non potete. Potete gettare gli istinti più bassi fuori dalla porta e vedrete come rientrano dalla finestra. L’unica soluzione è accettarli o addirittura metterli su un piedistallo. Con il cinema vale lo stesso meccanismo poco importa se siete degli autori o vi crogiolate in sala con un mano nel secchiello dei popcorn e l’altra sui gioielli di famiglia. Immaginatelo come un raptus: un giorno a Ti West (regista del seguito di Cabin Fever e di un episodio di V/H/S) è venuto un certo languorino, diciamo la voglia di girare qualcosa di buono. Sono tempi duri e, per allentare la tensione, uno può fare sobriamente lo sporcaccione. A soddisfare le sue brame è giunta la A24, e si tratta di gente che produce Lamb e The Lighthouse, quindi sai di non potertela cavare con la trasgressione fine a se stessa. Devi cercare di vestirla, confezionarla; di coprire le vergogne con una sana patina intellettuale, rimanendo composto anche quando Robert Pattinson copula con una sirena.

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Il risultato di questa torbida impresa è X: A Sexy Horror Story, un giochino metacinematografico che omaggia l’era delle pellicole sexploitation, in una cornice che sembra immune al trascorrere dei decenni e all’evoluzione dei costumi sociali; parliamo di un Texas che più rurale non si può. Il perno degli eventi è una splendida Mia Goth, ambiziosa e disinibita, che si fa delle memorabili cavalcate in campagna, prima di scontrarsi con il suo alter ego, l’anzianissima Pearl, interpretata sempre da lei. Un approfondimento sulla villain senile è in arrivo quest’anno ed è intitolato proprio Pearl. Ti West ha girato i due film back to back e li ha giudicati stilisticamente diversi ma narrativamente complementari. In attesa dell’antefatto, togliamoci i calzoni e parliamo di X, sempre che la vostra bava non abbia già creato un laghetto artificiale.

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Siamo alla fine degli anni ’70 e le giovani generazioni hanno ormai assimilato la ventata liberatoria della rivoluzione del ’68. Certo, non tutta la società americana vede di buon occhio l’emancipazione sessuale, in primis gli attempati abitanti della provincia texana, trincerati dietro il bigottismo e un pizzico di rimpianto per non aver vissuto un’adolescenza più licenziosa. Con il sesso ci sono problemi, con la violenza un po’ meno, ed ecco che l’occhio della camera indugia sugli esiti di una carneficina mentre, da una televisione a tutto volume, i predicatori si scagliano contro quegli individui che portano alla corruzione morale e alla perdita dei valori. Tutti santi a parole, eppure il locale a luci rosse di Wayne (Martin Henderson), situato nel bel mezzo del nulla, va a gonfie vele!

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Nello strip club dell’uomo, che è anche un produttore cinematografico in erba, lavorano due belle ragazze: la ballerina di burlesque Bobby-Lynne (Brittany Snow), artista del sex appeal, e l’aspirante attrice Maxine (Mia Goth, già apprezzata ne La cura dal benessere). Quest’ultima è la fidanzata di Wayne e sogna di potersi allontanare da quelle lande desolate per diventare una celebrità e ottenere tutto ciò che, secondo il suo pensiero, le spetterebbe di diritto; intanto si accontenta di pippare cocaina come un Black & Decker e di apparire in pellicole hard a zero budget. Wayne crede infatti nelle potenzialità dell’home video in salsa pornografica, settore destinato a esplodere negli anni a venire, e parte con le due donne per girare un mirabolante capolavoro dal titolo Le figlie del contadino. All’impresa si uniscono l’ex-marine Jackson (Scott Mescudi), che interpreterà il protagonista superdotato, il regista amatoriale RJ (Owen Campbell) e la sua ragazza Lorraine (Jenna Ortega), santarellina che presto si lascerà alle spalle le inibizioni per partecipare a una scena!

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Ogni membro della sgangherata compagnia insegue il sogno americano, visto come l’ingresso nello star system o come la missione impossibile di girare un porno che sia anche un bel film. RJ incarna lo studentello che immagina un futuro da autore indipendente, si impegna con le inquadrature e con la direzione degli attori, perché riprendere scene hot non è una scusa per non fare un ottimo lavoro. Owen Campbell non nasconde l’aspetto macchiettistico del personaggio, specie quando viene contrapposto a Wayne, manager caciarone che gira in mutande e gli illustra i misteri della psicologia femminile. In fondo stai solo girando un amplesso, ed è tutto rose e fiori fino a quando la tua innamorata non decide di farne parte! Quando un’opera diventa così personale, puoi fare due cose: o ti impegni per infonderle il tuo messaggio o alzi le braccia al cielo e fai come René Ferretti, gridando con fare liberatorio “La qualità c’ha rotto il cazzo… viva la merda!”.

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Le seghe mentali di RJ rimangono insolute, poiché sopraggiungono i vecchiacci ingrifati: il set de Le figlie del contadino è una fattoria gestita dal burbero Howard (Stephen Ure) e dalla moglie Pearl, due anziani inquietanti che sorvegliano a distanza la lavorazione del film. Casa padronale, campi di grano e laghetto con grossi rettili evidenziano il richiamo di Ti West a classici come Non aprite quella porta, Venerdì 13 e Reazione a catena di Mario Bava, caratterizzati da una brutalità che rimaneva a sobbollire per il tempo necessario, fino a esplodere in faccia allo spettatore con generose quantità di budella.

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I carnefici, come vuole la prassi, sono derelitti disumanizzati e disposti all’estremo pur di colpire i rappresentanti di quella società che li ha resi degli outsider. Pearl ha perso con gli anni le doti seduttive delle quali andava tanto fiera (e che ci verranno mostrate nel prequel), provando ancora un desiderio carnale insoddisfatto. La megera è il doppelgänger di Maxine e ne conosce a menadito l’irrefrenabile impulso di assaporare la vita. Il corpo giovane e sodo della sua “gemella” è fonte di invidia, di frustrazione; riappropriarsi dell’età passata è impossibile, perfino quando il corpo dell’altra viene toccato e accarezzato in una sequenza che va oltre la molestia per approdare a un bizzarro autoerotismo, a una spersonalizzazione che ci porta a identificarci nel nostro modello ideale. Il tentativo di un contatto empatico antiaging – e quindi di una comunicazione intergenerazionale – è vano, o meglio, è votato al voyeurismo, e perciò sopraggiunge il bisogno di castigare la troupe per le sue abitudini dissolute.

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Un’allupata mannara americana in Texas.

Ammazza la vecchia… prima che la vecchia ammazzi te. A che serve un killer con la motosega quando abbiamo la forza sovrannaturale della menopausa? Gli ospiti fornicanti devono vedersela con Pearl e, curiosamente, i maschi crepano in ordine di virilità percepita, oltre a rimanere succubi di un potere di iniziativa esclusivamente femminile. La dinamica degli omicidi e il taglio psicologico della storia stanno in piedi – non ci stanchiamo di ripeterlo – grazie a una Mia Goth capace di sdoppiarsi con abilità e di dare diverse sfumature (relazionali, gestuali) a due facce della stessa medaglia, separate dai decenni sul groppone. Giocando sulla sua corporatura esile, l’attrice trasmette un’innocenza che è solo un paravento per l’ambiguità e si trova a sua agio in qualunque contesto, che si tratti di stare nuda nel granaio o di fare la pazza con tonnellate di make-up.

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Il resto del cast è caratterizzato quanto basta ed è sorretto da logiche di gruppo che ne evidenziano il variegato approccio alla vita: si parla di maialate, di sogni nel cassetto, di maialate, di etica, di maialate e del confine tra un legame sentimentale e il sesso occasionale. Il nucleo protagonista è composto da individui simpatici e perlopiù innocui (se sorvoliamo sulla dipendenza da droghe), mentre a spaventare sono i sermoni puritani in tv, il cibo per l’animo imputridito di chi non ha avuto l’occasione di autodeterminarsi, di allentare i vincoli socio-culturali. Ah, non dimentichiamo gli alligatori, presenti negli shot più ispirati.

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Ti West, al pari di uno scanzonato Francesco Pannofino, sviluppa un rapporto filosofico con le cagate, esibendole senza pudore e dandogli perfino fiducia. Gli elementi scenografici e lo splatter a tavoletta servono a raccontarci le contraddizioni di un’epoca, correndo sul filo della parodia. D’altro canto non si riuscirebbe a girare un porno prendendosi troppo sul serio, figuriamoci mettere in campo un’orgia di citazioni di genere! Il discorso sulla sessualità viene adottato come fattore di innesco delle vicende senza dilungarsi in analisi sociologiche e le chiavi di lettura non tentano di portarci eccessivamente lontano, quanto di distanziare l’intera operazione dall’omaggio cinefilo senza arte né parte. Chi ama le tette avrà tette, chi cerca un neo-slasher potrà farsi un pasto decente e chi vuole conoscere i trascorsi libertini della vecchia verrà presto accontentato. L’inizio di un potenziale franchise ci ha insegnato che in amore l’età è solo un numero, specie quando avete un forcone da fieno nel retro.

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