Un excursus sanguigno sulla versione restaurata del capolavoro di Murnau.
di Alessandro Sivieri
“Turista fai da te? No Alpitour?”
Lovecraft diceva che col volgere di strani eoni, anche la morte può morire. E se così non fosse, nulla ci vieta di metterla alla berlina. Siamo nell’era del digitale e, se ho voglia di navigare a vista nel Web, posso incappare facilmente nel meme di quattro becchini ghanesi che ballano portando una cassa da morto. Una performance paradossale, dissacrante, che mi è tornata in mente quando ho visto il leggendario Max Schreck aggirarsi per le strade di Wisborg (Londra era blindata dal copyright) con la sua bara di cartone sottobraccio. Un moderno campeggiatore, insomma; uno a cui piace portarsi dietro tutte le comodità, specie perché un vampiro non dorme sonni tranquilli senza la sua terra sconsacrata a portata di mano. La scena può apparire ridicola se ci basiamo sugli attuali canoni estetici, che si parli della direzione attoriale o del modo di fotografare un villain sovrannaturale, eppure è una perfetta esternazione della vena surreale che percorre Nosferatu, eine Symphonie des Grauens, film che sta per compiere un secolo di vita mentre questa disamina viene redatta.
Per coloro che non hanno ancora conosciuto il morso del Conte Orlok, trattasi di un adattamento molto libero e per nulla autorizzato del romanzo Dracula di Bram Stoker, datato 1987, dove si narra in forma epistolare di un gruppo di gentiluomini alle prese con il Conte Vlad Tepes III, il vampiro per antonomasia. Vecchio di secoli, dotato di una forza sovrumana, di un fine intelletto, del controllo sulle bestie e di mille altri poteri oscuri, Dracula deve nutrirsi di sangue umano per mantenere il proprio stato di non-morto. Una figura dai canini affilati che è entrata di diritto nell’immaginario orrorifico mondiale, specie se consideriamo alcune pietre miliari del Cinema: l’omonima pellicola di Tod Browning con Bela Lugosi, i film della Hammer con Christopher Lee e la versione di Francis Ford Coppola, il quale aggiunse allo script una sottotrama amorosa che coinvolgeva il Conte e Mina Harker (Winona Ryder). La nostra redazione ha inoltre condotto un’accurata analisi della miniserie su Netflix, che ha rimescolato con efficacia i tratti costitutivi del personaggio (recensione degli episodi qui, qui e qui). Mettiamo un attimo dei paletti alla florida carriera del principe di Valacchia, poiché fu il suo fratellastro, il Conte Orlok, ad approdare per primo sul grande schermo, mandando per giunta la sua casa produttrice in bancarotta. A quanto pare è questo il prezzo dell’immortalità.

La Prana-Film, casa di produzione indipendente, non era in possesso dei diritti per adattare il capolavoro di Stoker; in compenso non mancava di inventiva, determinazione e di un torbido background occultista: a tenere le redini del progetto era l’artista Albin Grau, membro di varie sette teosofiche e fervido ammiratore di Aleister Crowley, il famigerato esoterista inglese. Disegnatore di professione, Grau aveva fondato la Prana-Film (in riferimento all’energia vitale della fisiologia induista) con l’intento di divulgare le proprie credenze e creare delle opere curate nel dettaglio, in grado di travolgere la sfera sensoriale dello spettatore e parlare al suo inconscio. Grau e il suo socio Enrico Dieckmann avevano in mente di sfornare diverse pellicole all’insegna delle scienze arcane; peccato che l’unica a vedere la luce fu proprio Nosferatu. Questo esordio fatale, manco a farlo apposta, sguazza nei riferimenti mistici, specie se ci distacchiamo dal materiale letterario per concentrarci sui dettagli: il contratto di locazione scritto dal subdolo Knock (Alexander Granach) e spedito al Conte Orlock tramite il giovane Thomas Hutter (Gustav von Wangenheim) consiste in una serie di simboli alchemici e stralci di lingua enochiana, un idioma artificiale attribuito all’astrologo John Dee e al veggente Edward Kelley. Tali caratteristiche rendono il documento un easter egg primordiale, affine al manoscritto Voynich e ad altri cartigli misteriosi, sebbene risulti più comprensibile di buona parte degli attuali mutui sulla prima casa.
“Firmare in basso a destra con il sangue dello stagista.”
Un altro elemento di interesse è il professor Bulwer, interpretato da John Gottowt e riconducibile alla figura di Van Helsing. Bulwer è un uomo saggio e istruito, il principale punto di riferimento per gli abitanti di Wisborg durante la pestilenza; viene presentato come un seguace di Paracelso, lo studioso svizzero che diede uno scossone agli studi naturalistici dell’epoca e che si appassionò ai saperi parascientifici. Nonostante l’illustre curriculum, il professore ha un ruolo marginale nella trama e non entra in contatto diretto con il vampiro. A proposito di vampirismo, Grau aveva un chiodo fisso per le leggende sui succhiasangue e trovò emoglobina per i propri denti in Stoker e in altri autori tardo-ottocenteschi come Arthur Conan Doyle. Ebbene sì, il creatore di Sherlock Holmes scrisse un buon numero di storie con i vampiri, inclusa una dove appare il suo geniale investigatore (L’avventura del vampiro del Sussex). L’archetipo mostruoso era pronto a trasmigrare dal cartaceo alla celluloide e Dracula era il libro prescelto, da adattare in modo ufficioso e con le dovute modifiche all’apparato narrativo. La Prana-Film scelse come sceneggiatore Henrik Galeen, il quale spostò l’ambientazione dalla metropoli londinese al fittizio borgo di Wisborg, nella Germania settentrionale. Le scene in Transilvania furono girate in Slovacchia, precisamente nel castello di Orava, dimora del Conte Orlok, anche se molte scenografie degli interni vennero costruite a Berlino.
La regia venne affidata a Friedrich Wilhelm Murnau, per il quale Grau aveva realizzato dei manifesti nel 1920, in occasione dell’uscita del lungometraggio Der Gang in die Nacht. Il fondatore della Prana-Film apprezzò parecchio l’opera di Murnau e il suo approccio pittorico alla fotografia, ispirato agli artisti romantici come Caspar David Friederich. Nosferatu affonda così le proprie radici in una corrente creativa tormentata, alla perenne ricerca dell’ineffabile, e negli stilemi dell’espressionismo tedesco. Erano gli anni di Fritz Lang e di Robert Wiene, il periodo post-bellico dove la fantasia lasciava emergere i demoni interiori di una società devastata. Il prodotto cinematografico si ammanta di tematiche trascendentali, di architetture distorte e di soffocanti primi piani su volti spigolosi e contratti in smorfie di terrore; le performance vengono amplificate da luci intense e da un accurato uso del trucco. Sia chiaro, in Nosferatu non troviamo il rigore geometrico di Metropolis o le scenografie allucinate de Il gabinetto del dottor Caligari, ma il rigetto quasi superstizioso della modernità e la sublimazione della natura rispecchiano in pieno il pensiero espressionista. Il volto di un Conrad Veidt sotto ipnosi è facilmente accostabile ai lineamenti bestiali del Conte Orlok, dotato di orecchie a punta, pallore cadaverico e zanne affilate in bella vista. Curiosamente, la versione apocrifa di Dracula non si vergogna di mostrare i denti, mentre dovremo aspettare Christopher Lee e i film della Hammer per ammirare i canini retrattili del “vero” Conte. Il vecchio Bela Lugosi, gentleman d’altri tempi, si limitava a un po’ di cipria e a una straordinaria presenza scenica.
La trama originaria viene epurata da una serie di eventi e personaggi (Lucy Westenra, il dottor Seward e gli altri corteggiatori della ragazza) per concentrarsi sulla costruzione di un’atmosfera, sulle suggestioni di una malvagità inarrestabile. Siamo nella Germania del 1838 e il giovane agente immobiliare Hutter vive un matrimonio idilliaco con la moglie Ellen (Greta Schröder). Il suo losco capo, Knock, gli ordina di recarsi in Transilvania per fare visita al Conte Orlok, il quale si è detto interessato ad acquistare un immobile a Wisborg. Hutter abbandona così Ellen e affronta un lungo viaggio, solo per scoprire che il Conte Orlok è un Nosferatu, un morto vivente che si nutre di sangue. Rispetto a Dracula, considerato il Principe delle tenebre, Orlok viene identificato come il membro di una specie, una creatura ferina che si fa portatrice di morte e di un morbo contagioso (la peste).

Quando il protagonista si accorge del pericolo, è troppo tardi: Orlok è rimasto affascinato da un ritratto di Ellen e, mosso dal desiderio di sangue giovane, si trasferisce a Wisborg lasciandosi dietro una scia di devastazione. La pestilenza invade il piccolo borgo grazie ai topi infetti del vampiro, che verrà infine sconfitto da Ellen, a costo della vita. La donna, concedendosi al morso del Conte, si sacrifica e lo trattiene fino alle luci dell’alba, la cui comparsa porta alla distruzione della creatura. Nessun cacciatore di mostri interviene per uccidere Orlok con un paletto nel cuore. L’epilogo è più una emulazione perversa delle classiche fiabe, dove il principe salva la principessa con un bacio. Peccato che il “bacio” del Conte vada oltre ogni concezione d’amore e di sacralità, rendendo Nosferatu un ibrido tra una favola nera e un trattato sul folklore mitteleuropeo. Come ci narrano le cronache, la vedova di Bram Stoker non fu affatto colpita dalle qualità che abbiamo evidenziato finora, e preferì sguinzagliare i suoi vampiri personali (gli avvocati) dietro a Murnau e alla casa produttrice.
Murnau racconta una favola nera sulla pestilenza.
La moglie del defunto scrittore fece causa alla Prana-Film per violazione dei diritti d’autore: la storia e i personaggi risultavano troppo simili al romanzo di Stoker, e anche se le leggi sul copyright erano agli albori, la donna riuscì a convincere i tribunali inglesi. La società di Albin Grau andò in fallimento e venne ordinato a Murnau di distruggere tutte le copie esistenti del film. Fortunatamente la Film Society of London conservò una copia di Nosferatu per scopi di preservazione storica, circostanza che ha permesso alla pellicola di sopravvivere fino ai nostri giorni e di guadagnare lo status di cult. Il Conte Orlok è diventato un’icona pop al pari di Dracula ed è stato citato in varie opere, dal remake di Werner Herzog alla miniserie kinghiana Le notti di Salem, senza scordarci il Petyr di What We Do in the Shadows e, come vedremo più avanti, L’ombra del vampiro.
Parecchie versioni di Nosferatu hanno migrato tra gli archivi e le sale di proiezione, decennio dopo decennio, fino al raggiungimento di una forma il più fedele possibile all’originale. Quella che la redazione di Monster Movie ha visto al cinema è una copia restaurata grazie a uno sforzo congiunto della Murnau Stiftung e della Cineteca di Bologna. Graditissimo l’impiego della colonna sonora originale, mentre l’alta risoluzione ci fa apprezzare i dettagli del make-up e degli ambienti, pur cancellando parte del fascino vintage. Ora, come farebbe il Conte con il collo dei vostri congiunti, è tempo di sviscerare il film, portando alla luce gli aspetti tecnici e creativi che hanno solleticato le nostre papille mostrofile.
Chi avrebbe mai creduto che il mercato immobiliare presentasse tanti pericoli? L’ambizioso Hutter, il Jonathan Harker di turno, deve abbandonare la quiete matrimoniale per avventurarsi nel cuore dei Carpazi. Le location bucoliche dovrebbero rasserenarci quanto le pacifiche stradine di Wisborg, eppure una minaccia aleggia nell’aria, un moto di terrore che alberga negli occhi degli abitanti locali, i quali parlano di lupi mannari. Il riferimento all’altra grande creatura del pantheon orrorifico evidenzia la portata simbolica del Conte e l’attaccamento del mondo contadino a paure ataviche, a superstizioni che vanno oltre la normale devozione religiosa. Il tragitto che conduce al castello di Orlok è scandito da panorami ambigui, alieni.
Con l’arrivo della carrozza fantasma, l’ambientazione diventa un’autentica estensione dei poteri del Conte, ed ecco che la claustrofobia si impossessa perfino degli spazi aperti. Come nei saloni del castello e nel veliero deserto, la presenza del vampiro è palpabile anche se quest’ultimo si trova da un’altra parte o schiaccia un pisolino nella sua bara prediletta. In una particolare sequenza nella foresta, Murnau ci offre delle immagini in negativo, ricoprendo il carro di panni bianchi per scurirlo. Tale espediente ci dà l’impressione dell’ingresso in una dimensione parallela, in un ecosistema deviato dove le leggi e le certezze umane non contano nulla. La luce, insomma, terrorizza quanto l’ombra (una lezione che gente come Ari Aster, con le sue sovraesposizioni, ha assimilato con diligenza). I boschi sono una location altamente utile e flessibile, un labirinto metafisico nel quale i personaggi possono smarrirsi e avvertire la presenza di forze maligne senza vederle: pensiamo, in questo senso, a The Blair Witch Project o alla gita nelle selve oscure di Antrum. Ulteriori scorci montuosi sottolineano l’ammirazione del regista Murnau per Friedrich e la sua tendenza a svincolarsi brevemente dalle esigenze della scrittura per “dipingere” con la macchina da presa.
Ecco a voi la natura, selvaggia e incontaminata, ma proprio per questo colma di insidie. Il potenziale allegorico degli scenari si estende agli animali che li popolano: nella prima parte osserviamo gatti di casa e cavalli che scorrazzano nelle praterie, emblema di una vitalità sana e di istinti addomesticati. L’incontro con i villici transilvani e il riferimento al lupo mannaro introduce quella seconda concezione di natura che abbiamo esaminato poco fa, non più libera ma opprimente e portatrice di sventure; una realtà dove solo il più forte sopravvive, prosciugando le prede della vitalità, alla stregua del Conte. La regia ci mostra un polpo nello studio del professor Bulwer, un ragno che intrappola un insetto, una pianta carnivora e una iena, mammifero che si ciba di carcasse. Non si tratta certamente di un lupo, eppure questa carrellata di predatori e necrofagi è anticipatrice del pericolo, un destino al quale “nessuno sfugge”, come dice un passante a Hutter. I cineasti contemporanei fanno un uso analogo del regno animale, suggerendo che il male sia in grado di creare una catena alimentare dove l’uomo non ha più il controllo: basti pensare ai caproni e ai gabbiani di Robert Eggers o alla volpe parlante di Antichrist. Arrivano poi le superstar, ovvero i topi infetti di Nosferatu, creature che diffondono la piaga. D’altronde il soprannome di Orlok deriva dal termine greco nosophoros, che designa un portatore di malattie.
Dall’incontro con il Conte non passa molto prima che Hutter inizi ad avere dei sospetti e sprofondi nel panico: Orlok si dimostra subito interessato al ritratto di Ellen, apprezzandone il bel collo, e ha un atteggiamento malsano nei confronti del giovane. La classe e l’orgoglio aristocratico di Vlad Tepes sono un lontano ricordo, al pari delle tre mogli e dei tentativi di dissimulare le propria personalità. Nosferatu è un predatore, il suo unico istinto è nutrirsi di sangue; oltre a ciò è un non-morto dall’aspetto ripugnante e presenta una gestualità rigida e meccanica, come se fosse preda del rigor mortis. In altre occasioni sa essere velocissimo e può spostare oggetti con la forza della mente, aspetto che Murnau mette in scena grazie al montaggio (un time-lapse embrionale e riprese accelerate). Avendo poco in comune con gli umani, è infine privo di rimorsi o crucci morali. Il soggiorno di Hutter nel castello diventa un incubo, mentre dalla lontana Wisborg la moglie Ellen sembra avvertire il senso di minaccia. Mentre Nosferatu sta per aggredire Hutter, percepisce qualcosa e volge lo sguardo; un raccordo tra le due inquadrature ci fa immaginare che due persone in luoghi distanti (il Conte ed Ellen) si stiano guardando negli occhi. La congiunzione spaziale tramite il montaggio è un espediente sfruttato in precedenza da Murnau per il suo Der Gang in die Nacht.
La donna subisce attacchi di sonnambulismo come se fosse già sotto il potere di Orlok; lo stato di dormiveglia, nel quale il soggetto è vulnerabile agli agenti esterni, determina l’ingresso in un mondo onirico dove le percezioni vengono amplificate. Le fanciulle dei film di Dario Argento si muovono spesso in scenari da incubo, guidate da uno stato mentale alterato che le mette in connessione con l’assassino, come si osserva in Suspiria e soprattutto in Phenomena: il vagabondaggio catatonico di Jennifer Connelly e le soggettive in negativo dimostrano che Argento ha apprezzato le idee seminali di Murnau. Torniamo alla vocazione turistica del Conte: giusto il tempo di caricare qualche bara sul carro e il vampiro è pronto a una traversata marittima. Nosferatu viene scoperto dall’equipaggio e decide di sterminarlo, donandoci alcune tra le scene più iconiche del film. Un marinaio scopre inorridito il contenuto delle casse, risvegliando il Conte, che emerge dal sonno dei morti. Uno shot che entrerà nella Storia del cinema è quello del mostro che si aggira lentamente sul ponte, pronto a uccidere il capitano (legato al timone) con il suo morso fatale. La nave apparentemente deserta giunge a Wisborg, e il mostro è presente nel nostro subconscio anche quando la fotografia non fa altro che ritrarre le vele spiegate. Le autorità non trovano nulla, se non il corpo del capitano, ma Nosferatu è sbarcato in città insieme ai ratti pestiferi.
La morte nera dilaga nella cittadina di Wisborg e gli abitanti, impauriti, trovano un capro espiatorio in Knock, altra persona in contatto telepatico con il Conte. Alla stregua di R. M. Renfield, l’imprenditore è diventato un servo di Orlok e sprofonda nella follia mentre quest’ultimo si avvicina alla città. Infine riesce a evadere e la folla tenta di lapidarlo, manifestando i sintomi di un malessere sociale che va oltre la pur terribile pestilenza. Anche se Hutter riesce a tornare da Ellen, il Conte scruta la preda da lontano, precisamente dalla sua nuova dimora (i magazzini del sale di Lubecca). Quando il vampiro si decide a colpire, Ellen è preparata, se non rassegnata alla sua terribile sorte: avendo letto alcuni scritti trovati dal marito, sa che intrattenendo il mostro fino all’alba lo esporrà ai raggi del sole, provocandone la dissoluzione. L’ingresso di Orlok in casa Hutter è colmo di perle visive giocate su elementi fuori campo, in primis la silhouette del vampiro sulle scale e, successivamente, l’ombra del Conte che incombe sulla virginale Ellen, con la mano che giunge a stringerle metaforicamente il cuore. Un richiamo fatale alla malattia che travolge la giovane e alla violenza sessuale.
Nemmeno il Conte sopporta il lunedì mattina.
Il morso di una creatura umanoide ed emofaga può essere inteso come l’ingresso brutale della componente erotica in un matrimonio tutto sommato casto. Nosferatu si è talmente abbuffato di sangue innocente da perdere la cognizione del tempo, ed ecco che la luce diurna lo polverizza con una forza purificatrice. La profezia è compiuta, o meglio il canovaccio di questa fiaba dal finale amaro. L’amore di Ellen le ha infuso il coraggio di mettere la salvezza del marito (e della cittadina intera) davanti alla sua incolumità, trasformandosi in un agnello sacrificale. L’epilogo segna un ritorno parziale ai temi dell’incipit e al legame tra i due sposi, chiudendo una storia romantica non invadente ma essenziale alle motivazioni dei protagonisti. Cosa rimane allo spettatore? Ben più di un cumulo di cenere sul pavimento. L’eredità di questo lungometraggio va dal simbolismo (ampiamente trattato) alle lezioni di stile, incluse quelle involontarie.
Lo stile deriva in parte dalle soluzioni tecniche.
Parliamo di un’opera a budget ridotto che risale a un secolo fa, quando il Cinema era alla costante ricerca di una raffinazione tecnica, e c’era bisogno di idee azzardate per superare la limitatezza dei mezzi. L’equipaggiamento di quel tempo rendeva impossibile girare scene di sera, in quanto era necessaria parecchia luce. Ciò spiega le ombre accentuate e l’uso artistico che ne viene fatto nei passaggi chiave. Il film venne realizzato di giorno, in estate, e vennero aggiunte tonalità blu e verdi per distinguere le scene notturne da quelle diurne, le quali vennero colorate di giallo, arancio o rosa (riservato alla scena dell’alba). Eppure per parecchi anni circolò una versione unicamente in bianco e nero di Nosferatu, con l’effetto straniante di vedere il vampiro che passeggia in pieno giorno per la cittadina. Nel 1984 venne rinvenuta a Parigi una copia con i colori regolarmente applicati. Le scelte cromatiche, dettate dalla necessità, rinforzano l’atmosfera surreale dell’opera e “raffreddano” con un tono cimiteriale le nottate dove il Conte ricompare tra i vivi. Tutto ciò bastava all’epoca per dare i brividi. Ovviamente, secondo i gusti contemporanei, Orlok che vaga per il centro storico con la sua cassa può suscitare ilarità, o alla meno peggio ricordarci Franco Nero in Django. Anche lo sguardo carico di desiderio dalla finestra del magazzino lo rende accostabile al vicino di casa rattuso che scruta in camera da letto.
Si tratta di una mutazione – lunga un secolo – degli strumenti interpretativi e di ciò che può spaventare il pubblico. Per la gente del 1922 era sufficiente vedere un attore pesantemente truccato o un’orda di ratti per provare paura, a differenza della nostra sovrapproduzione di slasher. L’adolescente medio del 2022 è bombardato di supporti multimediali e si mangia motoseghe a colazione, ma agli inizi del ‘900 Nosferatu era, a tutti gli effetti, un film horror efficace. Non per niente l’attore che interpreta Orlok si chiama Max Schreck, Massimo Spavento. La nostra redazione conosce un ex-collega chiamato Massimo Terribile, ma un Massimo Spavento che diventa una leggenda dell’horror è perlomeno curioso. Il nome di Shrek, l’orco verde della DreamWorks, ha una radice simile; il gioco di parole è stato sfruttato anche nel settore videoludico con Max Payne, dove l’omonimo protagonista suona come Massimo del dolore ed è dipendente da antidolorifici.

La bizzarra coincidenza ha portato gli appassionati a credere che Max Schreck fosse un nome d’arte o che l’attore non esistesse affatto. Alcuni sostenevano che fosse Murnau stesso, nascosto dal make-up, altri che fosse un autentico vampiro scovato da Grau e soci nei Carpazi. In realtà Albin Grau si era ispirato a un ricordo personale durante la guerra, precisamente nel 1916, quando un contadino serbo gli aveva riferito, in confidenza, che il padre era un non-morto. Friedrich Gustav Max Schreck non ebbe più un ruolo di importanza paragonabile (gli venne offerta una parte minore nella successiva pellicola di Murnau), ma la sua esistenza è testimoniata dalla partecipazione a spettacoli teatrali della Münchner Kammerspiele. Concedendo un po’ di spazio alle speculazioni, si può ipotizzare che Schreck rimase così ossessionato dal suo personaggio da assumere atteggiamenti sinistri. Un film con Willem Dafoe, L’ombra del vampiro, ci racconta la genesi di Nosferatu e costruisce una storia indipendente basandosi su tali dicerie.
Non me ne voglia il buon Massimo Spavento, ma anch’io sono stato Nosferatu per una notte. Correva l’anno 2019 quando la redazione di Monster Movie si avventurava nell’evento di Halloween organizzato da Movieland Park, evento che abbiamo ribattezzato Monster Movieland! La mia naturale calvizie ha aiutato l’immedesimazione, mentre un bel paio di zanne e il make-up a opera di Federica Braghieri hanno fatto il resto. Mi sono fermamente opposto alle lenti a contatto e a alle unghie finte, poiché non ho la dedizione di Max Schreck. In compenso ho una soglia del dolore molto bassa. Gli altri membri del gruppo hanno interpretato altre figure di primo piano dell’immaginario vampiresco, da Barnabas Collins al Dracula di Christopher Lee, ed eccoci pronti per una serata di sommo terrore. Potete avere un assaggio dei costumi nella nostra puntata de La Bottega dei Mostri.
Il gruppo vampiresco ha suscitato una pioggia di ammirazione e richieste di foto, anche se nessuno degli astanti ha voluto donare un’oncia di sangue fresco per placare la nostra arsura. Ho apprezzato ancor più la sensazione di potere di Nosferatu, insieme alla gestualità resa celebre dall’interprete e valorizzata dall’essenzialità del costume. Nessuno ha avuto il coraggio di ridere come gli spettatori accanto a noi durante la proiezione, mentre ci godevamo Max Schreck turista improvvisato, sebbene qualcuno ci abbia scambiato per la Famiglia Addams e per una inedita Famiglia Voldemort. In modo da accontentare tutti, ho chiamato la mia personale versione Nosfigatu, e state certi che prima o poi ritornerà. Speriamo invece che Schreck, per quanto amato come attore, resti a riposare sottoterra, perché se le dicerie sono vere siamo tutti condannati al succhiotto di Wisborg.
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